Omelia tenuta dal Vescovo di Rimini in occasione della 41.a Conferenza Nazionale del Rinnovamento nello Spirito
Mi rendo conto che collegare questo vangelo al tema dei carismi che voi intendete trattare in questa vostra Conferenza annuale potrà forse sembrare operazione forzata o attualizzazione impropria e scorretta. Ma a suggerirmi questo collegamento – ve l’assicuro – non è stata la voglia di esibirmi in esegesi spericolate pur di dirvi la mia – non so poi quanto davvero utile – sul tema dei carismi, che vi impegnerà in questi giorni. E’ proprio la sequenza evangelica appena proclamata a chiedermi di imprimere questa ‘curvatura’ all’omelia che sto per proporvi. In effetti nel taglia-incolla del brano evangelico, eseguito dalle rubriche liturgiche, è stato compiuto un salto dal versetto 21 al 24, dove si parla proprio dei carismi.
1. Conviene perciò rileggere quelle poche righe:
In quel giorno molti mi diranno: “Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E non abbiamo forse scacciato demoni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?” Ma allora io dichiarerà loro: “Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità!”.
Il messaggio è lampante: non basta esercitare i carismi della profezia, degli esorcismi e neanche quello dei miracoli per accreditarsi come veri discepoli di Gesù. In filigrana, dietro la pagina del vangelo di oggi, si intravede la comunità cristiana a cui si rivolge l’evangelista Matteo. Deve trattarsi di una comunità carismatica, vivace ed entusiasta. La si direbbe anche attaccata al Signore: nel suo nome celebra il culto, nel suo nome pronuncia oracoli profetici, nel suo nome opera miracoli ed esorcismi. Questa comunità, ricca di doni anche straordinari, rischia grosso: se continua a riempirsi la bocca di preghiere e di invocazioni, se non la smette di stordirsi di devozioni e di pie pratiche, prima o poi finirà per sbandare proprio sul terreno in cui si può “testare” la fede in misura infallibile: il terreno del quotidiano, dove o si fa la volontà del Padre o la religione diventa una dolce droga buonista, gratificante e soporifera, ma paurosamente alienante. Ad una comunità a un passo dal pre-collasso l’evangelista non trova di meglio che ricordare la lezione del Maestro, che contro questo cancro della fede aveva condotto una lotta dura e senza paura.
Torniamo all’insegnamento di Gesù: una lezione in due tempi. Nel primo, il Signore dice che neanche le profezie più stupefacenti, gli esorcismi più sbalorditivi, le guarigioni più strabilianti fanno entrare automaticamente nel regno di Dio. Posso operare nel suo nome cose buone per gli altri, come gli esorcisti di Efeso (cf. At 19,11ss), ma senza che questo mi assicuri la mia salvezza. Posso invocare continuamente il Signore e camminare in direzione opposta alla sua legge. Posso agire nel nome del Signore, ma non fare la sua volontà. Posso frequentare il tempio di Dio e non amare i suoi figli. Posso addirittura sbraitare per difendere i suoi interessi – vedi i farisei – e sbracciarmi per amore della sua legge, ma non osservare la sua legge dell’amore. La sentenza di Gesù è senza appello: nel giorno del giudizio ognuno mieterà ciò che ha seminato: chi non ha compiuto la volontà del Padre – in pratica chi non avrà osservato la legge dell’amore – sarà bollato come “operatore di iniquità” e dovrà sentirsi rivolte le parole più dure di Cristo in tutto il vangelo: “Non vi ho mai conosciuti!”.
La seconda lezione non è un semplice ripasso della prima: è una sua illustrazione coinvolgente e provocante, attraverso la parabola delle due case. Ci sono due modi possibili di accettare la parola del Signore, come ci sono due modi per costruire una casa. Il primo costruttore della parabola edifica la casa sulla roccia: ne risulta una costruzione solida, resistente all’urto di piogge torrenziali e di venti impetuosi. Il secondo invece costruisce su un terreno friabile: la casa non potrà resistere alla forza di calamità naturali, e inesorabilmente crollerà. A questi costruttori il brano evangelico paragona due diverse tipologie di discepoli: c’è chi ascolta le parole del Signore e le mette in pratica; e c’è chi ascolta, ma non agisce di conseguenza.
2. Due sono i virus che aggrediscono e compromettono un esercizio dei carismi improntato a una fede di sana e robusta costituzione: incoerenza e ipocrisia. Più che di due disturbi passeggeri, si tratta piuttosto di due patologie mortali. L’incoerenza è “dire” di credere, ma non “fare” di conseguenza. L’ipocrisia è fingere di credere, ma poi è fare esattamente il contrario. L’incoerente non è necessariamente un malvagio: è un debole che vorrebbe seguire la strada del Vangelo, ma la trova troppo ripida per le sue gambe. Può essere anche un sentimentale, che ha aderito alla fede sull’onda dell’entusiasmo, ma poi si ritrova a dover fare i conti con le seduzioni degli idoli, con le preoccupazioni della vita, o con le tante difficoltà che si frappongono sempre tra il dire e il fare. L’ipocrita è, secondo l’etimologia, un “attore”: riduce la fede ad una maschera e la religione a spettacolo, e spesso si comporta così per il malsano gusto di apparire e di mettersi in vetrina. La sequela del Signore comincia effettivamente quando il discepolo comincia a guarire da queste due brutte malattie, che sono ad alto rischio per la sua sopravvivenza.
Quali sono allora gli antidoti contro questi germi patogeni? In altre parole, cosa dobbiamo fare perché i carismi che lo Spirito effonde su di noi costruiscano la Chiesa, la casa fondata sulla roccia, e non si trasformi invece in una minaccia alla solidità e alla stabilità della ‘casa comune’ e in un serio pericolo per la nostra stessa personale fedeltà al Vangelo? La risposta sta nel rapporto tra carisma e santità. Occorre ricordare che il carisma non è dato a causa della santità o in vista della santità di una persona, ma è vero che il suo esercizio non si mantiene sano e retto, e finisce per non servire per l’utilità comune, se non riposa sugli stessi “sentimenti di Cristo Gesù”.
Il primo sentimento è la carità, “la via migliore di tutte” (1Cor 12,31): essa mi fa amare la Chiesa e la comunità in cui vivo. E nella comunione tutti i carismi, non solo alcuni, sono anche ‘miei’. Scriveva s. Agostino: “Se tu ami l’unità, tutto ciò che in essa è posseduto da qualcuno, lo possiedi anche tu”. Bandisci l’invidia e sarà tuo ciò che è mio, e se bandisco l’invidia, è mio ciò che è tuo. L’invidia separa, la carità unisce”. E’ vero: la carità non addiziona i carismi, ma li moltiplica: fa del carisma di uno il carisma di tutti e del carisma di tutti il carisma di ciascuno. Invece il carisma che vivo per conto mio “a nulla mi giova”, mi ammonisce san Paolo, anzi finisce per rappresentare per me un serio pericolo di peccato, se io me ne servo per la mia affermazione o gratificazione personale. Perché in quel caso lo faccio diventare il piedistallo per il mio monumento personale. E questo non sarebbe certamente nell’ottica della carità e del servizio ecclesiale.
Il secondo sentimento è l’umiltà. La virtù che costituisce il microclima ideale per la fioritura dei carismi e per la loro preziosa fecondità. Permette di non bruciare questo tesoro e di non scottarsi le mani con il suo fuoco, provocando fiammate di orgoglio e di rivalità.
Che il Signore crocifisso e risorto vi dia un cuore docile a quanto in questi giorni vi vorrà dire e dare il suo Spirito!
Rimini, Palacongressi, 7 dicembre 2017
+ Francesco Lambiasi