Vieni, servo buono e fedele!

“Vieni, servo buono e fedele!”
In morte dell’Arcivescovo Pietro Sambi

Omelia pronunciata dal Vescovo nella celebrazione della Messa esequiale per l’Arcivescovo Pietro Sambi
Sogliano sul Rubicone, 2 agosto 2011

         “Signore, mi affido alla tua infinita misericordia, chiedo perdono per i miei innumerevoli peccati; per tutta l’eternità vorrei cantare la tua bontà. Accolgo la     morte come, dove, quando a Dio piacerà, in unione con Cristo sulla croce, come        atto di totale obbedienza al padre, per la mia salvezza, per il santo Padre, per la        santificazione della Chiesa e dei sacerdoti; per la redenzione dei popoli che la      Provvidenza mi ha dato di servire”.

In queste parole si concentra tutta la vita del padre e fratello Arcivescovo, Pietro Sambi. E’ l’incipit del suo testamento autografo, datato Washington 28 maggio 2011, alla vigilia del suo ultimo viaggio alla volta dell’Italia, appena due mesi esatti, prima della sua ultima chiamata al rientro nella patria, la terra santa dei figli di Dio, la sconfinata, accogliente casa del Padre. Dalle righe appena citate vorrei recuperare alcune parole che mi sembrano pennellare a tutto tondo il profilo spirituale di Mons. Sambi. Sono parole che appartengono a quel cantus firmus che ha fatto da sottofondo ai suoi 73 anni di esistenza come cristiano, sacerdote, vescovo e nunzio apostolico.

1. La prima parola – una vera e propria password – che ci fa entrare nel suo testamento spirituale e attraverso il testamento ci fa intercettare il segreto della sua vita, è misericordia. Questa parola la conosciamo: viene da lontano; parte da Dio e porta a Dio. La misericordia fa il suo ingresso nella storia della salvezza fin dal suo inizio e l’attraversa tutta intera, dal principio alla fine, come canta Maria, nel Magnificat: “Di generazione in generazione la Sua misericordia si stende su quelli che lo temono”. “Misericordia” racconta perciò l’amore tenerissimo di Dio, un amore che non si arresta di fronte alla miseria degli “amati” – noi, poveri peccatori – non vince soltanto il tempo, ma stravince il nemico più accanito: il peccato, l’ingratitudine, l’infedeltà.

Sperimentare la misericordia del Signore significa contemplare la propria vita come una miseria abbracciata dalla compassione, come un niente teneramente avvolto dal mantello del tutto, come un vuoto colmato da una grazia smisurata, traboccante. Mons. Sambi ha sperimentato la misericordia di Dio, perché ha sperimentato la propria miseria: nel Testamento non ha paura di chiedere perdono per i suoi “innumerevoli peccati”. E alla fine scrive testualmente: “L’unica ricchezza in cui confido è l’infinita misericordia di Dio e l’amore materno della vergine Maria, Madre mia e Fiducia mia”. L’abisso della miseria umana è insondabile: al solo tentare di esplorarlo, si viene colti dalle vertigini dell’angoscia. Pietro Sambi ha superato la paura della propria miseria, perché l’ha vista abbracciata dalla divina misericordia. Ed è proprio perché ha creduto nell’amore misericordioso di Dio, che è riuscito a guardare la sua vita come una storia di misericordia ricevuta e ridonata.

“In questo momento passano davanti ai miei occhi tanti sacerdoti e laici, incontrati       sulle strade del mondo, che mi hanno fatto del bene; ad essi la mia gratitudine; passano anche tante persone che ho incontrato nella miseria, nella sofferenza         fisica o morale, nella guerra, nella umiliazione, che avrei dovuto aiutare di più e        meglio: Signore abbi pietà di loro e di me”.

E più avanti parla dei “poveri, ai quali – scrive – ho consacrato la vita”. Ecco il miracolo avvenuto nella vita di questo servo buono: si è lasciato contagiare dalla misericordia di Dio per diventare a sua volta segno e strumento della divina, umanissima misericordia per molti. Pensando a Mons. Sambi, missionario della misericordia divina e nunzio apostolico – tra diversi paesi – in Israele, torna alla mente un midrash della letteratura rabbinica.

 

“Quando ero un ragazzino il signor Maestro stava insegnandomi a leggere. Una    volta mi mostrò nel libro di preghiere due minuscole lettere, simili a due puntini      quadrati. E mi disse: <<Vedi, Uri, queste due lettere, una accanto all’altra? E’ il       monogramma del santo Nome di Dio; e, ovunque, nelle preghiere, scorgi insieme questi due puntini, devi pronunciare il santo Nome di Dio, anche se non è scritto       per intero>>. Continuammo a leggere con il Maestro, finché non trovammo, alla      fine di una frase, i due punti. Erano egualmente due puntini quadrati, solo non          uno accanto all’altro, ma uno sopra l’altro. Pensai che si trattasse del         monogramma di Dio, perciò pronunciai il suo santo Nome. Il Maestro disse però:         <<No, no, Uri. Quel segno non indica il Nome di Dio. Solo là dove i puntini sono a         fianco l’uno dell’altro, dove uno vede nell’altro un fratello o un compagno a lui     uguale, solo là c’è il Nome di Dio. Ma dove i puntini sono uno sopra e l’altro sotto,   là non c’è il Nome di Dio>>”.

Dio non è là dove c’è dominio dell’uno sull’altro: là c’è solo paura. Dio è solo là dove uno vede nell’altro un fratello o un compagno a lui uguale, ne prova misericordia, e lo scioglie da ogni paura.

 

2. La seconda parola scritta nell’antifona che ha fatto da base al canto di fede di Mons. Sambi, è proprio fede. Molti di noi possono testimoniare che quella di Sambi è stata una fede nuda, limpida, come la fiducia cieca di un bambino nell’amore della mamma. “Signore, mi affido alla tua infinita misericordia”. Questa fiducia tenera e intrepida si  è tradotta in obbedienza, una obbedienza declinata giorno dopo giorno, con una prontezza agilissima ad ogni cenno del Papa, la cui volontà il Nunzio Sambi ha sempre fedelmente tradotta e interpretata come volontà di Dio. Mi confidava una delle ultime volte che ci siamo incontrati, quando sembrava profilarsi un nuovo incarico: “Io ho sempre detto di sì. Perché proprio ora dovrei dire di no?!”. Ma quante volte egli ha dovuto coniugare i sinonimi del verbo credere: fidarsi, obbedire, rischiare, andare dietro a Gesù, secondo la definizione di fede che propone il Vaticano II: fede è l’atteggiamento “con cui l’uomo si consegna a Dio liberamente e totalmente” (DV 5).

La fede che ha infiammato il cuore di Pietro Sambi è stata di ottimo conio, della lega inossidabile della fede di Abramo e di Maria. Sì, credere è rispondere sempre come Abramo: “Esci dalla tua terra e va!”. E l’ultima parola di Maria al messaggio dell’angelo è la parola dell’ascolto obbediente: “Eccomi, sono la serva del Signore: avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1,38). Commentava Giovanni Paolo II nella Redemptoris Mater: “Nell’annunciazione… Maria si è abbandonata a Dio completamente… prestando il ‘pieno ossequio dell’intelletto e della volontà’ (DV 5)”. Ecco l’altro miracolo avvenuto nella storia di Mons. Sambi. E’ il miracolo della fede, per cui ora egli prega che avvenga anche per noi ogni giorno, fino all’ultimo giorno della nostra vita: credere. Credere è fidarsi e affidarsi. Credere è  abbandonarsi. Se si riconosce che c’era qualcuno prima di noi, si riconosce anche l’amore e l’attenzione di chi ci ha fatto; allora si abbandona il proprio piccolo progetto e ci si lascia condurre.

Ecco cosa è stato credere per Maria, come per Abramo e la sua discendenza: è stato “un atto tale che, per via di esso, uno viene a trovarsi completamente gettato in braccio all’infinito” (Kierkegaard). Ma qual è la condizione di possibilità per un atto tanto ardito e audace? E’ l’auto-negazione, il rinnegamento: “Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso” (Mt 16,24). La TILC traduce: “smetta di pensare a se stesso”. Viene in mente il racconto della conversione di Francesco d’Assisi, il quale si convertì non nel senso che da pagano o da ateo divenne cristiano, ma nel senso – scrive testualmente Tommaso da Celano – che Francesco “smise di adorare se stesso”. L’idolo che deve essere rinnegato è il proprio io falso e malato, insaziabile, egoista; è l’ego autocentrato e ostinatamente autosufficiente, che sogna di autorealizzarsi, si illude di autofondarsi, presume di autosalvarsi.

La conseguenza che s’impone è una sola: la gratuità. Se abbiamo ricevuto gratuitamente, gratuitamente siamo chiamati a dare (cfr Mt 10,8). Perché se tutto ci è stato donato, tutto deve essere ridonato. Davvero non possediamo se non ciò che diamo. Se mi è stato fatto il dono della vita e della fede è perché io diventi dono, ricordando sempre che non ho dato nulla finché non ho donato tutto. Se la tua esistenza si è lasciata trasfigurare dalla grazia del Signore – mi pare di sentire la voce di Mons. Sambi –  non puoi trattenere per te la luce che viene dal suo volto, ma la lascerai passare perché illumini gli altri. “Guardate a lui, sarete raggianti”. Il Testamento si chiude con le parole del salmo 36: “Alla tua luce vediamo la luce”, a cui l’Arcivescovo si è ispirato per il motto del suo stemma episcopale.

 

3. Una terza parola che riprendiamo dal Testamento è la parola missione. Mons. Pietro Sambi è stato un vero missionario, perché non ha vissuto la missione per iniziativa propria, o come un’autodestinazione. Il missionario non ha un suo progetto da realizzare, né una parola propria da dire. Non si è apostoli per decisione personale, ma per chiamata. E la chiamata chiede un grande amore: non si va in missione per interesse o per bisogno, ma per amore, e non primariamente per amore degli uomini, ma di Gesù Cristo. “Noi siamo vostri servitori per amore di Gesù Cristo” (2Cor 4,5).

Se invece non credo sul serio nella provvidenza sapiente di Dio, allora vivrò sempre nella paura e non riuscirò mai a credere veramente che “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8,29). Se non credo per davvero che l’amore di Dio è più forte della morte, al punto da ridare la vita al Figlio obbediente, allora non accetterò mai di morire ai miei progetti e cercherò di darmi vita da solo, facendomi signore di me stesso.

E siamo all’ultima parola: lode. Abbiamo ascoltato: nel Testamento Mons. Sambi scrive: “Per tutta la vita, Signore, vorrei cantare la tua bontà”. ma questo canto di lode inizia per il cristiano già quaggiù, ed è il segno infallibile di una vita riconciliata, di un’esistenza intimamente appagata. Nelle parole appena citate del testamento mi pare di sentire l’eco di parole più grandi di me. come ad esempio quelle del vescovo Vincenzo Savio, deceduto prematuramente qualche anno fa, il quale alcuni giorni prima di morire ha scritto nel suo testamento: “Io sono senza misura contento di Dio. Una meraviglia! Una sorpresa continua, tale da poter dire a me, con convinzione, che in ogni istante la sua misura era piena e pigiata”. Essere contenti di Dio: è la spiritualità dell’alleluia, che a Teresa di Lisieux faceva esclamare, sul letto di morte, a 24 anni: “Oh, mio Dio, tu hai superato ogni mia attesa!”.

E non sarà proprio l’alleluia il canto dei risorti? Ma intanto è anche il canto dei pellegrini. Come esortava Agostino: “O felice quell’alleluia cantato lassù! O alleluia di sicurezza e di pace! Là nessuno ci sarà nemico, là non perderemo nessun amico. Ivi risuoneranno le lodi di Dio. Certo risuonano anche ora qui. Qui però nell’ansia, mentre lassù nella tranquillità. Qui nella speranza, lassù nella realtà. Qui da esuli e pellegrini, lassù nella patria. Cantiamo da viandanti. Canta, ma cammina. Che significa camminare? Andare avanti nel bene, progredire nella santità. Canta e cammina”.

Amen. Alleluia! Vieni Signore Gesù. Sono state le ultime parole di Mons. Sambi, rivolte al Signore dei suoi giorni. E le prime del Signore rivolte a lui non possono che essere state: “Vieni, servo buono e fedele: entra nella gioia del tuo Signore!”.

Amen. Alleluia!

Sogliano, 2 agosto 2011

+ Francesco Lambiasi