Omelia tenuta nella Messa Crismale, Mercoledì Santo, 19 marzo 2008
Una suora delle mie parti mi ha spedito l’altro ieri un libro dal titolo provocante: Pretacci – Storie di uomini che portano il Vangelo sul marciapiede. Vado subito all’indice, e vi trovo, tra i vari nomi, anche una bella scheda su don Oreste. Di lui, a pag. 230, leggo testualmente questa confessione:
“Io penso che il Signore mi abbia donato la vita più bella. Ci penso con la stessa gratitudine, dal giorno in cui dissi a mio padre che mi sarei fatto prete. Avevo sette anni. Celebrai la mia messa a Rimini nella chiesa di s. Agostino il 29 giugno 1949”.
Commenta l’autore: “E di quel giorno, scolpito nella memoria, parla come chi ha scalato la collina della felicità”. Questa pagina mi ha fatto ricordare un’altra testimonianza di don Oreste sul giorno della sua ordinazione:
“In quel giorno Cristo mi ha trasformato dandomi il suo cuore di pastore e mi ha fatto sacerdote (‘che dà le cose sacre’) e prete (‘colui che ha il dono dell’anzianità’). Io sarò per sempre prete, sacerdote, perché Cristo mi ha stampato su di sé sacerdote in eterno. Io porterò per sempre la sua impronta. Però ho paura perché da quel giorno in me passa anche il suo amore crocifisso, per amare fino a dare la vita. Da quel giorno io avrò sempre un fascino unico, splendido, nella misura in cui mi farò compenetrare da Cristo” (Catechismo, 111).
La testimonianza fedele, generosa e invincibilmente gioiosa di questo santo prete riminese resterà incancellabile nel nostro presbiterio e ci aiuta stasera a prendere quota nella nostra riflessione. A lui affidiamo una calorosa preghiera di intercessione perché ognuno di noi sacerdoti riminesi “sia un credente e lo diventi sempre più: che si veda nella sua verità, con gli occhi di Cristo” (PdV, 73).
1. Ma cosa significa vederci con gli occhi di Cristo? Significa vederci come dei poveri uomini, trasformati da lui in lui; significa vederci come dei “trapiantati” che si portano in cuore il suo cuore di Pastore. I documenti del magistero dicono che “i presbiteri rappresentano Cristo Pastore e, come tali, trovano nella carità pastorale l’elemento unificante della loro identità teologica e della loro vita spirituale”: così la formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana (FP 9), che riprende il Vaticano II (PO 14). Più precisamente la Pastores dabo vobis (PdV), al n. 15, parlava dei presbiteri come di una “ripresentazione (lat. repraesentatio) sacramentale di Cristo Capo e Pastore”. La differenza tra il verbo rappresentare e il verbo ri-presentare (= nel senso di rendere presente) può sembrare sottile. L’importante è rendersi conto che i presbiteri non sono “attori” che giocano a “fare i pastori” recitando la parte del supremo Pastore, ma sono suoi veri “ambasciatori”, ovvero “ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio” (1 Cor 4,1).
A proposito il vescovo G. Bregantini racconta un simpatico episodio capitatogli durante una visita pastorale in Aspromonte. Andando a visitare un grande ovile, fu accolto dal pastore, proprietario, con una battuta gustosissima: “Benvenuto, collega!”. E alla sua evidente meraviglia, il pastore spiegò: “Anch’io sono pastore come lei. Un pastore, però, e non un pecoraio. Perché pecorai si nasce, ma pastori si diventa!”.
Basta il riferimento all’uso che Gesù fa della metafora del pastore buono per capire che noi presbiteri siamo stati resi pastori del gregge, un gregge che resta sempre tutto e solo di Cristo e perciò siamo chiamati a pascerlo con vera “carità pastorale”.
Sappiamo bene cosa significhi concretamente carità pastorale. Ma in questa nostra giornata sacerdotale in cui siamo chiamati rivivere la grazia della nostra ordinazione, spero sia utile a me e a ciascuno di voi tentare di rifocalizzare questa che viene definita da PdV 23 “il principio interiore, la virtù che anima e guida la vita spirituale del presbitero, in quanto configurato a Cristo capo e pastore”. Proviamo allora a vedere innanzitutto cosa non è carità pastorale, o, se vogliamo, tentiamo di monitorare i virus che l’aggrediscono.
Uno di questi, sempre in agguato, è il soggettivismo, con il suo frutto avvelenato, il narcisismo, che porta a vedere il ministero come un piedistallo per l’affermazione del proprio Io (autoreferenzialità), mentre invece “il presbiterato è per il ministero ecclesiale, e non per una dignità personale” (FP 14). Il ministero infatti non è né un premio né una conquista; è un dono, non un merito; non è proprietà dei singoli presbiteri, ma “ministero”, cioè servizio, qualunque sia il grado gerarchico.
Sintomo della patologia dell’Io individualista è anche il leaderismo, caratterizzato da grande difficoltà nel collaborare con i laici su un piano di vera corresponsabilità (FP 15).
Altro segno della “bulimia” del soggetto è quell’atteggiamento “padronale” che fa guardare alla parrocchia o alla comunità come ad un’azienda di cui il presbitero sarebbe il proprietario o il manager: da qui il managerialismo, per il quale sarà bene tenere costantemente sotto gli occhi l’esempio paradigmatico di Paolo: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Cor 1,24). In questi casi non c’è da meravigliarsi (ma c’è molto da patire!) se l’esercizio del ministero diventa routine agitata e convulsa, una croce da portare con molta pena e poco senso, e non invece un servizio, per quanto sofferto, un “sacrificio”, ossia una “cosa sacra” benedetta e sensata, appassionante e attraente.
2. In positivo la carità pastorale viene descritta così nella PdV: “Il contenuto essenziale della carità pastorale è il dono di sé, il totale dono di sé alla Chiesa, a immagine e in condivisione con il dono di Cristo” (n. 23). Detto forse più semplicemente: carità pastorale è amare la Chiesa con il cuore di Cristo Pastore; è donare tutto di sé con un amore incondizionatamente totale e autenticamente sponsale.
Riprendiamo queste due caratteristiche della carità pastorale. Innanzitutto la totalità di una donazione, che s. Paolo enuncia come un punto di onore, come l’impegno deciso e irreversibile di una consumazione sacrificale: “Consumerò me stesso per le vostre anime” (2Cor 12,15). E’ l’amoris officium di cui parla s. Agostino (In Joh., 123,5). Questa totalità è intensiva; dice una integrale, estrema radicalità: è quel martirio quotidiano per cui il prete si offre, come Cristo, pane spezzato per il mondo. E’ il dare tutto di sé, nella lucida consapevolezza che non si è dato nulla finché non si è dato tutto, ad immagine del buon Pastore, che dà la vita per le sue pecorelle (Gv 10,11). Ma la carità pastorale implica anche una totalità estensiva; è un dare il sangue non solo per i pochi presenti, ma anche per i molti che si sono – o sono stati – allontanati. Perché se anche una sola pecorella che ritorna all’ovile è la gioia del Pastore, le molte che ancora mancano sono la sua passione. L’orizzonte della carità pastorale non si può mai restringere al cerchio breve di una minoranza, per quanto viva, vivace e attiva. Le porte del cenacolo si aprono all’esterno, e il cuore del pastore si dilata fino a comprendere ogni uomo, sapendo che ogni uomo è un “fratello per il quale Cristo è morto” (1Cor 8,12). Il presbitero deve saper parlare il linguaggio più universale, quello dell’amore: è il linguaggio che capiscono tutti, piccoli e grandi, vicini e lontani: l’amore è davvero l’esperanto del prete.
La carità pastorale ha inoltre una imprescindibile connotazione sponsale: “La vita del presbitero deve essere illuminata e orientata anche da questo tratto sponsale, che gli chiede di essere testimone dell’amore sponsale di Cristo” (PdV 22). Anche qui il riferimento a s. Paolo è obbligato: la “gelosia” che egli prova per la comunità di Corinto evoca la purezza dell’amore, la dedizione fedele, la tenerezza intensa e appassionata. Si tratta di una sponsalità che si declina in maternità, perché la Chiesa non si organizza, ma si genera. Il presbitero, grazie alla grazia dello Spirito, viene abilitato a partecipare della sua misteriosa azione generativa nel cuore di sempre nuovi credenti. Occorre però tener presente che la sponsalità intrinseca alla carità pastorale è psicologicamente diversa da quella dell’amore coniugale, nativamente contrassegnato dalla “reciprocità”. Quella del pastore nella Chiesa è una sponsalità all’insegna della gratuità più disinteressata: è un donarsi senza condizioni e senza riserve, è uno spendersi a fondo perduto, anche e soprattutto quando questo amore non venisse corrisposto. E’ una donazione senza calcoli e senza sconti, che il pastore fa della sua vita e fa “molto volentieri” (2Cor 8,15: il testo greco usa il superlativo hedista, nella nuova CEI reso con “ben volentieri”).
Per concludere, vorrei accennare brevemente alla radice e al frutto dell’albero della vita del sacerdote, la carità pastorale.
La radice è l‘Eucaristia, definita da PdV 23 come la “sorgente da cui la carità pastorale riceve la grazia e la responsabilità di connotare in senso sacrificale l’intera esistenza” del sacerdote. Al riguardo, teniamo presente che il prete non può fare sull’altare solo il sacerdote che offre Cristo come vittima, ma deve farsi anche vittima che si lascia immolare da Cristo sacerdote. Questo gli richiederà lo sforzo costante di superare il rischio dell’assuefazione alla Messa, per non “andare in automatico”, rischio che potrà evitare nella misura in cui crescerà nel suo cuore la capacità di stupore di fronte al mistero. Quando la gente tornerà a vedere il suo prete non solo “sull’altare”, ma anche, in adorazione, “davanti all’altare”, allora non solo crederà di più alla Messa, ma anche al suo prete, e senz’altro lo amerà di più, perché anche il volto del prete sarà diverso: come il volto di Mosè, disceso dal monte.
Allora la lex orandi diventerà la vera lex vivendi e informerà tutta la vita del presbitero, e tutta la sua vita sarà veramente “eucaristica”, pienamente “sacerdotale”. Altrimenti l’obbedienza scadrà ad esecuzione forzata, la castità si ridurrà ad affettività inibita, congelata, e la povertà diventerà la brutta copia di una scontrosa, frustrante privazione.
E il frutto immancabile che si potrà cogliere sull’albero della carità pastorale sarà inevitabilmente la gioia. Ma a questo punto non mi resta da dire che una sola parola. Sto terminando proprio in questi giorni il “giro dei preti”, a cui mi sono dedicato fin dai primi giorni di servizio in mezzo a voi. E posso dire in tutta sincerità di aver ricevuto da voi un dono grande: ho incontrato preti contenti, talvolta stanchi e acciaccati, ma contenti; altre volte preoccupati o troppo indaffarati, ma sempre contenti di essere preti.
Lasciate perciò che oggi io non vi affatichi additandovi altre mete impegnative e obiettivi pastorali che, per quanto esaltanti, rischierebbero forse di non far scattare più i vostri passi troppo stanchi… Lasciate che oggi il vostro vescovo vi dica in nome del Signore e a nome dei vostri fedeli soltanto una parola: grazie.