Omelia del Vescovo di Rimini nella S. Messa inaugurale del Meeting
Dobbiamo riconoscerlo francamente: questo Gesù dal volto severo e dal piglio così brusco e intransigente, facciamo fatica a inserirlo nel file dei ritratti che di lui abbiamo salvato in memoria. Viene da chiedersi: ma perché il dolce rabbi ebreo si mostra ora così ruvido e inflessibile con questa povera mamma che non fa niente di male ad andare da lui a mendicare qualche briciola della sua prodigiosa misericordia a favore della bambina malata? Del resto, è forse una colpa imperdonabile non appartenere al popolo preferito dal Dio d’Israele?
Ripercorriamo allora la sequenza evangelica, scandita in tre ‘scatti’. Gesù si trova in una zona al confine con la costa fenicia, dove si è ritirato per sfuggire all’ambiguo assedio delle folle sempre ondeggianti e per sottrarsi agli assalti implacabili dei farisei. Ed ecco di colpo si vede investito dal grido straziante di una mamma denominata ‘cananea’, quindi appartenente a una nazione non solo straniera, ma notoriamente nemica d’Israele. La donna rovescia addosso a Gesù la sua pena inconsolabile: ha una figlia crudelmente tormentata da uno spirito maligno. La prima reazione del maestro galileo non è come al solito intonata alla sua ben nota umanità, sempre così sensibile e gentile. E’ anzi segnata dal silenzio, che sembra tradire una gelida indifferenza: Ma egli non le rivolse neppure una parola.
Intervengono allora i discepoli a sollecitare il Maestro perché accordi alla straniera quanto implora: solo così se la potranno finalmente togliere di torno. “Mandala via!”, gli strillano. Ma lui non ha mandato mai via nessuno: un missionario non può essere un… ‘dimissionario’! E però ora se ne esce con una dichiarazione raggelante, che, a prima vista, appare intonata al particolarismo più ristretto: “Io sono stato mandato solo alle pecore sperdute del popolo d’Israele”.
La povera mamma non si dà per vinta: taglia la strada a Gesù, si accovaccia ai suoi piedi e singhiozza: “Signore, aiutami!”. La replica di Gesù è formulata con un paragone che suona amaro e imbarazzante: “Non è giusto prendere il pane dei figli e buttarlo ai cagnolini”. Poiché gli ebrei affibbiavano cordialmente l’appellativo di ‘cani’ agli odiati pagani. Dinanzi a una risposta a prima vista così spiacevole chiunque si sarebbe arreso, ma non quella donna che azzarda un ultimo assalto per espugnare il cuore di Gesù, e controbatte, con fiducia incrollabile: di mangiare il pane dei figli lei non ha né diritto né merito, ma almeno di qualche minuscola briciola di bontà da parte del “Figlio di Davide” lei ne ha bisogno: un urgente, incontenibile bisogno.
A questo punto Gesù esplode in una dichiarazione di irrefrenabile stupore: riconosce alla donna la sua fede, e lo scontro-incontro si conclude con una parola di condiscendente misericordia. E’ la seconda volta che nel vangelo di san Matteo ricorre questo grido di ammirazione per una fede definita da Gesù davvero “grande”. La prima volta era accaduto con il centurione romano: era andato da Gesù a portargli la pena del suo servo paralizzato, ma l’aveva pregato di guarirlo a distanza con una sola parola, poiché non si sentiva degno di ricevere in casa quel maestro eccezionale. E Gesù era rimasto spiazzato e commosso da una fede così grande, mai vista prima in Israele (Mt 8,5ss). Di contro, più volte Gesù si trova a contestare la pochezza di fede che registra proprio nella cerchia dei Dodici, con Pietro in prima fila: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”.
C’è una verità confortante in questo vangelo: Gesù rivela il volto di un Dio senza frontiere, senza confini e ferree barriere. Il Padre suo ha un cuore più grande del nostro cuore. Ma non si lascia ‘confiscare’ da nessuno. E non si stanca mai di far saltare i muri dei fondamentalismi più gretti dei quali in questi giorni siamo costretti a vedere di quanta cieca violenza e di quali esiti raccapriccianti siano capaci. Ma, insieme, Dio Padre non smette mai di costruire i ponti del dialogo e dell’inclusione più ‘sconfinata’. Perché non riesce a pensarsi come un padre con figli e figliastri, e si porta in cuore un sogno insopprimibile: che tutte – ma proprio tutte! – le sue creature siedano un giorno alla sua mensa. La barriera figli/cani viene portata allo scoperto da Gesù non certo per blindarla, ma proprio per farla demolire dalla fede. Così la storia della salvezza di tutti si traduce nella salvezza della storia di ognuno.
Ma in questo vangelo c’è anche una verità provocante, e ce la insegna la cananea. Chiunque abita nei territori della sofferenza ha un posto privilegiato nel cuore di Dio, a prescindere da qualsiasi appartenenza di razza, di nazione, di religione. Perché la sofferenza rinvia alla fragilità dell’umano, che Gesù è venuto a condividere, facendosi buon samaritano dell’altro, di ogni altro anche se straniero, anche se povero, disabile, carcerato, disoccupato o tossicodipendente. E solo se ci lasciamo devastare il cuore dalla sofferenza dell’altro – che noi troppo spesso teniamo a debita distanza solo perché ‘altro’ da noi – allora la fede ci salva. Altrimenti aggrava la nostra già grave responsabilità.
Rimini-Fiera, 20 agosto 2017
+ Francesco Lambiasi