Omelia in occasione della Festa di san Gaudenzo
Ho cercato un vescovo, ho trovato una Chiesa. Così è stato detto del cardinale Carlo Maria Martini, recentemente scomparso. Così penso si potrebbe dire di san Gaudenzo: se lo cerchi, non lo trovi. Mi spiego: non lo trovi negli annali della storia antica; non rintracci remoti reperti di opere sue, di carattere letterario o architettonico. “La sua vicenda manca di specifiche coordinate storiche”, si legge nel I volume della Storia della Chiesa Riminese (p. 91), e ancora: “Un desolante vuoto di fonti connota i primordi di Rimini cristiana” (ivi, p. 89). Dunque, cerchi il vescovo Gaudenzo, e trovi una Chiesa: non una congrega fossile, ma una Chiesa viva, quella Chiesa viva che siamo noi. Ma qui si ripresenta puntuale la domanda intrigante: come ha fatto la fede cristiana a rimbalzare nell’antica Ariminum? Noi sappiamo che la spinta missionaria del cristianesimo primitivo fu favorita dal reticolo tentacolare delle grandi arterie consolari dell’impero romano. In quella mappa viaria Ariminum offriva una duplice opportunità, sia perché dotata di un importante porto sull’Adriatico, sia per il ponte di Tiberio che, collegando la via Flaminia alla via Aemilia ne faceva uno degli snodi più rilevanti che permetteva di partire da Roma e arrivare direttamente a Piacenza, praticamente alle porte di Mediolanum.
2. Ma questa possibilità, da sola, non spiega tutto. Due sembrano le ragioni principali che chiariscono, in modo convergente, come abbia fatto qualche prima spora di vangelo ad approdare a Rimini, via mare o via terra. La prima ragione si potrebbe formulare con le parole di uno storico del cristianesimo: “Dobbiamo tenere per certo che la sola esistenza e l’operosità costante delle singole comunità furono il principale coefficiente nella propagazione del cristianesimo” (A. Harnack). La seconda ragione, concomitante con la precedente, è data dal fatto che il cristianesimo si è diffuso velocemente sulle vie dell’impero romano soprattutto per l’impegno spontaneo dei credenti, da persona a persona. Celso, un filosofo pagano del II secolo, pensando di screditare la nuova religione, osservava che tra i suoi divulgatori abbondavano “cardatori di lana, calzolai, lavandai, gente senza istruzione e di maniera grossolana”.
Certo il terreno sul quale cadeva il seme del vangelo sembrava tutt’altro che favorevolmente predisposto ad accoglierlo. Era il terreno paludoso del basso impero che sembrava dovesse da un momento all’altro sprofondare nella voragine di una degenerazione irreversibile, a causa della escalation di una dilagante corruzione dei costumi e di uno spaventoso inquinamento della mentalità corrente. Eppure il cristianesimo ‘funzionò’ come una terapia efficace e risolutiva rispetto ad una malattia grave, mortale. Il vangelo rappresentò effettivamente la provvidenziale salvezza da un naufragio annunciato, anzi drammaticamente in corso. Ecco come descrive la situazione del tempo un antico autore cristiano. Dio “ci ha salvati mentre andavamo in rovina. Noi eravamo fuorviati di mente, adoravamo pietre e legno, oro, argento e rame lavorato dall’uomo. Tutta la nostra vita non era altro che morte!”.
3. Per ricostruire la comunità cristiana riminese allo stato nascente, immaginiamo per un istante che il prefetto della nostra antica Ariminum, negli anni tormentati della seconda metà del III secolo, al tempo della persecuzione di Valeriano, informato dei rumori di sottofondo che circolavano nell’opinione pubblica riguardo a una nuova ‘eteria’ di cristiani formatasi per la prima volta in città, abbia ordinato al questore Caio Plinio Terzo di svolgere accurate indagini al riguardo, e di stendergli un rapporto dettagliato sulla vicenda. Al termine dell’inchiesta, il questore manda questo verbale al prefetto.
“Signore, vale! Non avevo mai partecipato a investigazioni su questi ‘cristiani’, ma dopo aver indagato a fondo sul loro comportamento, mi domando onestamente se sia giusto infierire su gente mite e inerme, come ha ordinato di fare il nostro imperatore, Valeriano Augusto. L’inchiesta mi ha letteralmente ‘scioccato’. Ita est. Sì, è proprio così. Mi ha colpito innanzitutto la loro straordinaria umanità: non ho incontrato persone esaltate o invasate, come invece sono i devoti seguaci di Mani o di Mitra. Piuttosto io non ho mai incontrato gente così civile: tutto quello che è nobile, giusto, puro, degno di essere amato e onorato, tutto quello che è virtuoso e merita lode, tutto questo è oggetto dei loro pensieri, parole, opere. Tra di loro non si trovano persone infette dai bacilli pestiferi che ammorbano le nostre città e i palazzi del potere: invidia, gelosia, feroce ambizione, carrierismo sfrenato, corruzione vorace, spudorato clientelismo. Tutt’altro: vedessi come si amano! Tra di loro non si riscontrano discriminazioni razziali, sociali o sessuali: romani e barbari, padroni e schiavi, uomini e donne formano comunità unite, ordinate, mi verrebbe da dire armoniose, in cui molte voci fanno un solo coro. Il sospetto di una setta di sovversivi che starebbero sempre a tramare rivolte e congiure, a ordire attentati e complotti, mi risulta del tutto infondato. I veri terroristi hanno un arsenale imbottito di quella miscela esplosiva che è formata da tre fattori: fanatismo, clandestinità, violenza. Nessuno di questi terrificanti elementi ho rintracciato nelle loro case e nella loro sede. Del resto un terrorista suicida si uccide per uccidere. Un martire invece si lascia uccidere per testimoniare la fede. E poi, hai mai incontrato dei rivoluzionari che pagano le tasse e addirittura pregano per l’imperatore? Se inoltre vedessi con quale convinta e responsabile fedeltà vivono il matrimonio, con quale sobrietà e generosità usano il denaro, se sapessi con quale coraggio affrontano le avversità… Ancora, se sentissi il racconto della morte dei loro martiri che arrivano perfino a perdonare i nostri crudelissimi carnefici prima di venirne brutalmente massacrati, ti domandi: ma come ha fatto il mio progenitore, Caio Plinio il Giovane, a parlare della loro fede come di ‘superstizione irragionevole e smisurata’ (superstitionem pravam et immodicam)? Io piuttosto mi domando: c’è una vita più umana di quella cristiana? e c’è una speranza più affidabile di quella dei cristiani? Se poi tu mi chiedessi qual è il segreto di tanta umile bontà, di tanta audacia e indomita fortezza, e perfino di tanta incontenibile, limpida gioia, dovrei risponderti come mi ha detto una loro giovanissima fanciulla, con un sorriso gaio e sfavillante: ‘Il nostro segreto non è un imperativo etico, né una grande idea, né un valore astratto e impalpabile, ma una persona: Gesù’. A questo punto forse mi domanderai se per caso io non voglia diventare cristiano. Ti rispondo di no, perché non mi ritengo né degno né capace di vivere a quell’altezza. Ma una cosa so: se mi imporrai di applicare l’editto di Valeriano imperatore, che ordina la persecuzione contro i cristiani, sappi che io, Caio Plinio Terzo, non obbedirò. Preferisco essere condannato a morte per alto tradimento, pur di non tradire la mia coscienza e di non macchiarmi di sangue innocente. Vale!“.
3. Ma adesso, fratelli e sorelle, è ora di passare dalla Chiesa riminese delle origini alla nostra Chiesa diocesana di oggi.
Il santo Padre Benedetto XVI ci domanda di prendere coscienza del dramma che si sta consumando anche tra le nostre file: molti cristiani “hanno fatto naufragio nella fede” (1Tm 1,19) e hanno bisogno di una nuova evangelizzazione. Pertanto “il risveglio della fede deve essere la priorità nell’impegno della Chiesa ai nostri giorni”, ha detto il Papa, e questo vale anche per noi. Ecco la grazia dell’anno della fede, che coincide con il 50° del Vaticano II e il 20° della pubblicazione del Catechismo della Chiesa cattolica. Attrezzati con la ‘bussola’ del Concilio, illuminati dalla luce dello Spirito Santo, orienteremo il nostro cammino verso la meta della confermazione della fede. E sulla traccia del Catechismo della Chiesa cattolica, declineremo i grandi verbi della Chiesa ‘conciliare’: ascoltare, credere, celebrare, testimoniare.
Innanzitutto, ascoltare. Infatti non c’è Chiesa senza Parola. Ritorniamo alla suggestiva immagine dell’aula conciliare: la vasta navata della basilica vaticana, con due ali di vescovi a destra e a sinistra, e sull’altare, sotto il baldacchino del Bernini, un grande evangeliario aperto, per tutta la durata delle quattro sessioni. Con quell’immagine il Concilio voleva dire che la Chiesa è sotto, non sopra la Parola di Dio, ma a suo servizio. Nelle prime righe del documento di indizione dell’Anno della Fede, intitolato Porta fidei il Papa scrive: “E’ possibile oltrepassare quella soglia quando la parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma” (PF 1). Fratelli e sorelle, pieghiamoci dinanzi alla maestà della Parola. Sapete qual è il nostro dramma? Questo: Dio ci parla, ma noi siamo corazzati di abitudine e di attivismo. Tenete accesa la parola di Dio: rileggetela dolcemente. Ripetetela a voi stessi. Condividetela con i fratelli. Lasciatela penetrare nella vostra vita e la vostra vita ne resterà intrisa, imbevuta, ne risulterà trasfigurata. Diventerete voi stessi “lettera di Dio scritta dallo Spirito” (2Cor 3,3). Ma ora domandiamoci onestamente: possiamo dire che le nostre comunità parrocchiali o religiose, le varie aggregazioni laicali “venerano le divine Scritture come si fa con il corpo stesso di Cristo” (DV 21)? Senza l’ossigeno della parola di Dio, la comunità cristiana respira raso terra, la nostra pastorale boccheggia e scade a conduzione manageriale. Qui siamo chiamati tutti in causa, a cominciare da noi pastori: ci ricordiamo che nell’omelia “il ministro dovrebbe trasformarsi in profeta”? (Messaggio XII Sinodo 2008, n. 7). Questo potrà avvenire solo se tu, fratello, non consideri l’omelia come uno dei tanti doveri pastorali, ma come uno dei principali, a cui dedicare – costi quel che costi – tempo, studio e meditazione. Cosa stiamo facendo perché la parola di Dio diventi il pane della quotidiana ruminazione per tutti i nostri fratelli nella fede? Se vogliamo che “la Parola corra e si diffonda” per le nostre strade, nei luoghi di lavoro, nelle case e nei quartieri, non possiamo non attivarci perché si creino quei cenacoli del vangelo, dove i fedeli si incontrano per ascoltare la parola di Dio e metterla in pratica.
Secondo verbo, credere. Infatti non c’è Chiesa senza fede. Credere non è tanto imparare delle cose su Gesù, ma è innanzitutto incontrare Gesù Cristo. Il Papa non si stanca di ripeterlo. Ma incontrare Gesù Cristo nella fede significa crederlo vivente, non solo nel prossimo o nel povero, ma nella sua singolarità unica, personale, irripetibile. Scriveva Kierkegaard: “L’unico rapporto che si può avere con Cristo è la contemporaneità. Rapportarsi a un defunto è un rapporto estetico: la sua vita ha perso il pungolo, non giudica la mia vita, mi permette solo di ammirarlo”. Anche qui le domande si ammassano a grappoli. Poniamoci almeno questa: c’è in ogni parrocchia un momento per il primo annuncio di Gesù Cristo e per la crescita nella fede per giovani e adulti? Se manca la fede, le nostre comunità si riducono a nicchie di devoti che giocano a fare i cristiani, senza fare i cristiani.
Terzo verbo, celebrare. Infatti non c’è Chiesa senza eucaristia. Il Concilio ci ha ricordato che la liturgia è il vertice e insieme la fonte di tutta l’evangelizzazione (cfr SC 10). Ma è davvero così per le nostre liturgie? Ad ogni comunità cristiana si potrebbe chiedere: dimmi come celebri e ti dirò chi sei. Domandiamoci: perché non sempre le nostre Messe fanno ardere il cuore? Non è forse perché risultano celebrazioni improvvisate, frettolose, stravaganti, sciatte, noiose? Vi sono due rischi che minacciano la liturgia. Da una parte il freddo ritualismo che rischia di sconfinare nella magia: la tendenza a ritenere che meno si comprende ciò che si dice e si fa, e più si rasenta il mistero. Dall’altra la routine e l’automatismo che portano a non abitare più ciò che si dice e si fa, e danno luogo a un vuoto formalismo, meccanico e banalizzante.
Quarto verbo: testimoniare. Infatti non c’è Chiesa senza ‘martirio’, senza testimonianza, il martirio bianco. Con il Vaticano II si verifica una massiccia irruzione della terminologia della testimonianza – con più di cento ricorrenze! – nel vocabolario ecclesiale. Ne riprendo una sola, là dove si afferma che le comunità cristiane devono formare fedeli che siano “davanti al mondo testimoni della risurrezione del Signore Gesù” (cfr LG 38). L’oggetto della testimonianza non è un che, ma un chi: la cresima ci ‘conferma’ come testimoni del Risorto. Mi domando però: come una comunità cristiana può dare testimonianza di Gesù Risorto? E rispondo: attraverso il linguaggio dei segni per la gente. Sono segni il compimento del proprio dovere, la preghiera nella sventura, l’accettazione della morte, il perdono degli uccisori dei parenti, l’amore dei nemici, la solidarietà con i più deboli, la fedeltà degli sposi, l’apertura e l’accoglienza della vita, il celibato e la verginità per il regno di Dio. Sono segni che mettono il vangelo in presa diretta con la vita e vanno in controtendenza con la cultura secolarista, relativista, edonista. Questa cultura paganeggiante esalta la ricerca della ricchezza e del potere, idolatra il successo e la soddisfazione sessuale, ospedalizza forzosamente il malato e il morente, isola disabili, anziani, immigrati e carcerati. Questa cultura individualista tende sistematicamente a trasformare i propri interessi in bisogni, i bisogni in pretese, le pretese in diritti, nel totale misconoscimento del bene comune. Ed ecco le comunità cristiane che, in nome di Cristo, contravvengono in tutto a questo sistema e alla sua etica dello stordimento. E all’individualismo esasperato rispondono con la spiritualità della comunione, a cui si ispira la scelta della pastorale integrata, operata dalla nostra Diocesi in comunione con il Papa e i Vescovi italiani.
Fratelli e sorelle, si apre la porta della fede. Con Benedetto XVI, varchiamo la soglia di quella porta santa.
Chiesa di Dio che sei in Rimini, vieni: camminiamo nella luce del Signore!
Rimini, Basilica Cattedrale, 14 ottobre 2012
+ Francesco Lambiasi