Omelia del Vescovo per l’ordinazione diaconale di Simone Franchin, Stefano Battarra, Andrea Scognamiglio,e per l’ordinazione presbiterale di Francesco Fronzoni, Ugo Moncada, Gino Gessaroli
La gioia. Per molti, un desiderio pungente, destinato a rimanere immancabilmente frustrato. Per altri, una sconsolata nostalgia. Per altri ancora la gioia sarebbe un miraggio maliardo che prima ti illude e poi ti delude. Una sorta di fata morgana che prima ti strega e poi ti annega nelle sabbie mobili della più desolante depressione. Ma per i discepoli di Cristo – insegna papa Francesco – “la gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia” (EG 1).
1. Quel giorno a Gerico Zaccheo ha incontrato Gesù, e per la prima volta ha scoperto il domicilio della gioia. Per la prima volta ha ricevuto una misura pigiata, scossa e traboccante di perfetta letizia. Per la prima volta ha letteralmente incassato un “pieno di gioia” (Lc 6,9). Zaccheo è la storia di una vocazione, è il ‘tipo’ che percorre tutta la filiera dei verbi ‘vocazionali’: cercati, chiamati, mandati, perché amati.
Cercati. Gesù non può tollerare che “anche uno solo dei suoi fratelli più piccoli si perda” (cfr Mt 18,14). Il Figlio di Dio è tutto suo Padre, e Dio è fatto così: non si accontenta di avere in casa uno su due figli, cioè il 50%, come nella parabola del padre misericordioso. Non si accontenta neppure del 90%, come nella parabola delle dieci monete; anzi neppure del 99%, e per questo se ne va in cerca dell’unica pecorella smarrita. Perché “il Figlio dell’uomo è venuto a cercare ciò che era perduto” (Lc 19,10). Tra tutti gli abitanti di Gerico, sembra che a Gesù interessi proprio Zaccheo. Chissà, forse, se avesse dovuto sostenere l’esame di matematica, il Maestro di Nazaret avrebbe rischiato una solenne bocciatura. Per lui 1 = 99, anzi anche di più, perché “ci sarà più gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7). Dunque, se gli manchi anche solo tu, gli manca tutto. Ma, attenzione! non è la conversione di Zaccheo che condiziona la simpatia di Gesù, ma è la simpatia di Gesù che determina la conversione di Zaccheo. Non è vero che Dio non ha bisogno di cercarci, perché toccherebbe a noi cercare lui. Piuttosto vale anche per lui quanto vale per noi: “Si cerca perché sia più dolce il trovare e si trova perché sia più intenso il cercare” (s. Agostino). E questo basta alla nostra gioia.
2. Chiamati. Noi siamo cercati da Dio e da lui siamo stati ‘chiamati’ dall’eternità. E’ la ‘vocazione’: una parola-chiave del Vangelo, ma ormai esiliata dal nostro vocabolario corrente, che preferisce parlare di mission. In realtà ognuno di noi può dire: il Signore mi ha scelto, mi ha voluto, mi ha invitato ad esistere, mi ha inviato nel mondo per essere un’altra “bella copia” – unica, originale, irripetibile – dell’immagine perfetta del Figlio suo. Sentirsi scelti è una delle esperienze umane più liete e gratificanti; mentre il vedersi dimenticati e il ritrovarsi disattesi è spesso la fonte amara da cui fuoriescono a fiotti tante nostre tristezze. Pensiamo a un giovane che ha mandato in giro centinaia di curriculum e non viene mai chiamato a un colloquio. Pensiamo a una ragazza che a una festa si rende conto che nessuno si interessa di lei. Solo quando ci arriva una chiamata o un invito, solo allora la vita ci torna a sorridere. E questo basta alla nostra gioia.
3. Mandati. Siamo stati chiamati per andare a servire, a seminare, non a mietere successi, non a compiere miracoli spettacolari, non a produrre effetti speciali. Noi non siamo né i giganti dei nostri miraggi, né i nani dei nostri incubi. Siamo solo servi inutili, non nel senso che il nostro servizio non serva a niente, ma nel senso che siamo chiamati a servire senza riserve e senza pretese, senza puntare su premi e medaglie, senza la paura di minacce e castighi. Perciò non stiamo lì a romperci la testa con la partita doppia degli oneri e degli onori, degli investimenti e dei fatturati. Ci basta ricordare che l’obbedienza garantisce la missione dal rischio di coincidere con una autodestinazione. Ci basta sapere che siamo stati chiamati e veniamo mandati, perché siamo stati amati. Ci basta riconoscere che siamo stati amati non perché siamo santi e immacolati, ma per diventarlo. E questo basta alla nostra gioia.
4. Carissimi, avrei ancora tante cose da dirvi, ma una sola è quella necessaria: la gratitudine. Non dimenticate mai che la gioia è il risultato più ambito di questa virtù di “serie A”: la gratitudine. Dio non ha bisogno dei miei complimenti, ma come faccio a non ringraziarlo se per il mio primo giorno di esistenza mi ha regalato la vita? Come faccio a non essere grato con un Padre che il giorno del mio battesimo mi ha sorpreso con l’incalcolabile fortuna di farmi suo figlio? Come faccio a non rendermi conto che è cosa buona e giusta rendere grazie – sempre, dovunque, comunque – a Colui che ogni mattina sveglia per me il sole e per me ogni notte accende le stelle? Come faccio a non riamare chi mi ha dato fiducia? Mi ha cercato, chiamato, mandato a fare il pastore, in cooperativa con il Pastore grande delle pecore e con gli altri pastori, nell’unico presbiterio.
Infine, una beatitudine, una certezza, un augurio.
La beatitudine. Beati preti e diaconi che camminano nella vita a braccia spalancate: non faranno carriera, ma incontreranno tanta gente da abbracciare.
La certezza. Il contrario della santità non è il peccato: è la tristezza. Perciò nessuno crederà a un prete triste, anche se dice di portare una Buona Notizia.
L’augurio. Vi auguro di essere non solo preti generosi, ma soprattutto preti gioiosi, perché abbiamo bisogno di avere di più che preti bravi. Abbiamo bisogno di preti più contenti.
Rimini, Basilica Cattedrale, 21 settembre 2014 –
+ Francesco Lambiasi