Omelia del Vescovo nella solennità della santa Trinità
“Dio, Dio dei miei padri, ma Tu – Tu l’Unico. Tu l’Altissimo e vicinissimo. Tu l’Onnipresente e invisibile. Tu l’Onnipotente e infinitamente amante – dimmi: Ma Tu come ti chiami?”. Quel giorno di quel mese di quell’anno remotissimo di circa 3250 anni fa, Mosè, oscuro pastore ebreo – sfuggito agli artigli del faraone per aver tentato di organizzare la rivolta dei figli d’Israele, schiavi degli Egiziani – mentre pascolava il gregge sulla catena del Sinai, ebbe l’ardire di porre una domanda tanto irriverente quanto temeraria al Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, e si sentì rispondere: “Io sono colui che sono”. Un Nome formulato in ebraico con quattro consonanti o tetragramma sacro, che non va inteso come una definizione filosofica di Dio – del tipo “Io sono l’Essere perfettissimo” – ma come “Colui che è l’Essere-per”. Nome impronunciabile, che si potrebbe rendere con: “Io ci sono per te. Io sono qui con te. Io sono appassionatamente innamorato di te. Io sono il tuo fedele, irreversibile Alleato”. Da quel giorno la storia dell’opaco, minuscolo popolo d’Israele, e, di conseguenza, il cammino di tutta l’umanità registrò una vertiginosa impennata. Uno strabiliante salto qualitativo.
1. Ma per sondare questa autoidentificazione divina, dobbiamo arrivare più avanti nel libro dell’Esodo, là dove Dio, prima di consegnare il Decalogo a Mosè, proclama: “Io sono il Signore Dio tuo” (Es 20,2). Da piccolo, mi domandavo: perché una simile dichiarazione, prima dei dieci Comandamenti? Forse che Dio vuole dire a Mosè e a tutto Israele: “Io ho il diritto di comandarti o di proibirti questo e quant’altro”? Ma no. La misteriosa Voce che echeggia dal roveto ardente non pronuncia una minacciosa affermazione d’imperio, ma sussurra una tenera dichiarazione d’amore. Insomma, prima di dire a Israele: “Tu sei mio”, Dio gli dice: “Io sono tuo”. Difatti aggiunge: “Io sono il tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione di schiavitù”. E’ la classica formula dell’alleanza, che percorre tutto l’AT: “Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio”.
La nostra felicità sta nel piegarci ad assaporare la dolcezza di quell’aggettivo possessivo ‘vostro’. Dio è nostro! Ci appartiene! E’ più nostro di quanto non siano nostri l’appartamento che abitiamo, la sposa o lo sposo che amiamo, i figli che abbiamo. Dio è più mio di quanto non sia mio il mio corpo, la mia stessa vita. Questa è la forma più autentica e più gratuita di possesso: un possedere colui che ci possiede. Quali parole possiamo inventare per esprimere questo stupefacente mistero di grazia? Dio è Dio, ma la creatura ha Dio. La differenza tra noi e Dio è la stessa che c’è tra essere e avere. Nessuno, all’infuori di Dio, può dire: “Io sono Dio!”. Ma ognuno di noi può dire: “Io ho Dio!”. Dio è mio. “O Dio, tu sei il mio Dio!” (Sal 63,2).
Ora, dopo esserci rivolti a Mosè, proviamo a chiedere a Gesù di Nazareth: Rabbi Jeshù, ma come si chiama il tuo Dio? E Gesù ci risponde, abbagliante e sorprendente: Si chiama Abbà. Non potevamo avere risposta più radiosa e più tenera.
Ma confessiamolo, del tutto scoperti e disarmati. La parola Abbà – più che Padre, significa Papà, Babbo caro – è una parola che suona strana e stridente per l’uomo d’oggi. Il quale si sente orfano. Sperduto in un universo illimitato. Discende dalla scimmia e viene spedito dall’ostetricia all’obitorio. Gli è stato detto che “Dio Padre” era l’attentatore della sua libertà, un padre sadico e castrante. Un padre geloso del suo potere, invidioso dei suoi figli, goloso della loro felicità.
E invece il Dio-Abbà di Gesù è fatto tutto e solo d’amore. Non è soltanto un creatore onnipotente. L’essere che è sempre altro e lontano. Il trascendente e infinitamente distante. No, è l’Emmanuele, il Dio-con-noi.
Ma c’è di più. Abbà è una paroletta aramaica, la lingua corrente parlata dal popolo. E’ il nome con cui i bambini in casa chiamano il papà. Fuori casa o in pubblico i figli che incontrano il genitore, lo chiamano ‘signore’. E’ la parola più confidenziale, più affettuosa, più familiare . In sinagoga, nelle solenni liturgie in cui si parla l’ebraico, la lingua sacra, Dio è chiamato “Abinu, Padre nostro”. Gesù nel colloquio con Dio usa il linguaggio dei bambini, non quello dei rabbini. Sceglie la lingua di casa, non quella della sinagoga. Preferisce il dialetto del cuore e del popolo. Non la lingua aulica di scribi, farisei e sadducei.
Ma c’è ancora di più. Il Dio-Abbà trascende la dualità sessuale. Tutta la Bibbia evoca il suo “grembo di misericordia”, nel senso ‘uterino’ del termine. L’evangelista Giovanni ci parla addirittura del “seno del Padre”. Questo Abbà ha il volto di padre, ma ha il grembo di madre: ‘sente’ i suoi figli, come una mamma ‘sente’ i suoi piccoli: con tutto il suo essere, con tutta la sua carne, con tutte le sue viscere.
Ma c’è ancora di più, infinitamente di più. E la cosa ci riguarda da vicino. Dentro Dio, il Figlio si chiama Gesù. A lui il Padre-Abbà affida i suoi figli come ciò che ha di più caro. E noi tutti siamo affidati a Gesù, come fratelli e sorelle. “Erano tuoi e li hai dati a me”. L’Incarnazione fa inseparabili la Trinità e l’uomo. Anzi la Trinità e il mondo. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. E il legame d’amore tra il Padre e il Figlio, a causa dell’uomo, è lo Spirito-Amore.
Dio-Trinità: Tre in Uno. Uno in Tre. Distinti, ma non distanti. Fusi, ma non confusi. Uguali, ma non identici. Uni-ficati, ma non uni-formati.
E dentro la Trinità ci sei tu, ci sono io, ci siamo noi. Questa non è presunzione umana. E’ com-partecipazione sovrumana. Per questo “all’uomo è proibito pensare dimessamente di sé, perché in tal caso penserebbe dimessamente di Dio” (Rahner).
Rimini, Episcopio – 7 giugno 2020
+ Francesco Lambiasi