Omelia per le esequie di don Domenico Valgimigli
Permettetemi, fratelli e sorelle, di recitare ad alta voce la preghiera che il diacono, prima di proclamare il santo vangelo, ha recitato poco fa sottovoce. “Purifica, Signore, il mio cuore e le mie labbra, perché io possa degnamente annunciare il tuo vangelo”. Il vangelo è sempre una buona notizia. Quella di oggi è la più bella e lieta notizia sulla morte. E’ un lieto messaggio che si può concentrare letteralmente in due parole.
1. La prima è Alleluia. Una parola che, a sua volta, risulta composta di due piccole parole, lievi e brevi come un soffio: allelù-ia’, che letteralmente significa: “lodate il Signore!”. Alleluia è grido di gioia. Il suo contesto originario è l’esodo dall’Egitto: dopo il momento più drammatico dell’epopea d’Israele, con il passaggio del mare e la distruzione dell’esercito del faraone, la tensione collettiva si scioglie nel canto della liberazione, intonato da Mosè a gola spiegata: “Voglio cantare in onore del Signore: perché ha mirabilmente trionfato, ha gettato in mare cavallo e cavaliere”.
Ma lo scenario più adeguato per il canto dell’Alleluia è la Pasqua. C’è un evento più prodigioso, più imprevedibile e insuperabile, più sovrumano e più incarnato nella storia della risurrezione di Cristo?
“Perché cercate tra i morti colui che è vivo?”: la pietra ribaltata del sepolcro, per quanto dura e fredda come marmo, ha una voce. E dice che l’amore di Dio per noi è arrivato “fino alla fine”.
Quella pietra è stata ormai rotolata via, ma dice ancora che non c’è stazione della nostra dolente via crucis che Gesù non abbia conosciuto prima di noi e non abbia vissuto per noi.
Quel grido: “Non è qui; è risorto” dice che se Dio è venuto a spartire il nostro dolore, ora vuole condividere la gioia di essere nostro Padre e Salvatore. La gloria di Dio è la nostra salvezza.
Alleluia! L’esistenza del cristiano si gioca tutta qui: nel vivere la vita come un con-vivere con il Signore. E’ la spiritualità della Pasqua-Ascensione, un evento che non ci sottrae alla presenza del Risorto, ma ce ne agevola l’incontro. E ce lo fa contemporaneo di ogni avvenimento, interlocutore di ogni esistenza, fedele compagno di ogni cammino.
Alleluia! Oggi siamo chiamati a cantare l’alleluia di Cristo risorto e di tutti i risorti in Cristo. Siamo chiamati a cantare il canto dei salvati insieme a Don Domenico, del quale noi cristiani non possiamo affatto dire che è andato incontro alla morte. In verità Don Domenico è andato incontro al Cristo risorto.
Alleluia! La morte di un cristiano rassomiglia da vicino a quella di Gesù. Pertanto non è una ingiustizia irricevibile o un maledetta punizione, sanzionata da una divinità umorale e dispettosa. E’ vero che Dio non ci libera dalla morte. In verità fa molto di più: ci libera nella morte.
2. La seconda parola è grazia, l’amore gratuito del Signore.
“Tutto è grazia”: sono le ultime parole del diario del giovane Curato di campagna. Tutto è grazia, niente ci è dovuto. Tutto è dono gratuito e gratificante di Dio: il suo amore non si può acquistare; il suo favore non si può conquistare.
Ma questa non è la nostra condanna inesorabile, né la nostra irrimediabile sfortuna. E’ piuttosto il nostro vero guadagno. E’ il nostro incalcolabile merito: “tutto dipende non dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia” (Rm 9,16). “Tale è la misericordia di Dio verso gli uomini – afferma il concilio di Trento – da considerare meriti nostri quelli che sono in realtà doni suoi” (DS 1548).
A noi è chiesto solo di accogliere e di ringraziare. Ma secondo l’ottica evangelica niente è più attivo dell’accogliere, niente più concreto del ringraziare. Il merito vero del cristiano consiste nel ricevere: “Che cosa mai possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto?” (1Cor 4,7).
Grazie, Signore, per aver partecipato la tua vita divina al piccolo Domenico, fin dai primi giorni della sua esistenza.
Grazie per averlo incontrato da giovane e per averlo irresistibilmente affascinato.
Grazie perché gli hai dato la nota per il suo Magnificat e per avergli ispirato il canto struggente di quegli anni: “Io non sono degno di ciò che fai per me / tu che ami tanto uno come me. / Vedi, non ho nulla da donare a te / ma se tu lo vuoi, prendi me”.
Grazie per averlo fatto tuo ministro.
Grazie per avergli dato la grazia di battezzare tantissimi bambini.
Grazie per avergli donato la gioia di dare una mano a te per aiutarti ad incontrare tanti giovani e di dare l’altra mano ai giovani per aiutarli incontrare un Cristo vivo, come te.
Grazie per avergli fatto la grazia di benedire l’amore di tanti sposi, di riconciliare tanti fedeli nel sacramento del perdono, di accompagnare tanti fedeli defunti all’estrema dimora, di formare e accompagnare molti giovani al sacerdozio.
Grazie per avergli donato la grinta e averlo sostenuto nella fatica di costruire una grande e bella chiesa.
Grazie soprattutto per avergli contagiato passione apostolica, slancio ed entusiasmo per avviare la formazione di una “chiesa-famiglia” fatta di pietre vive, qual è la parrocchia della Riconciliazione.
Grazie, Signore per avergli fatto un oceano di bene e per avergli fatto fare un mare di altrettanto bene, che non possiamo vedere ora a occhio nudo, ma per il quale non basterà né a lui né a noi di lodarti in eterno con l’alleluia dei risorti, come cantava Agostino:
“O felice quell’alleluia cantato lassù! O alleluia di sicurezza e di pace! Là nessuno ci sarà nemico, là non perderemo nessun amico. Ivi risuoneranno le lodi di Dio. Certo risuonano anche ora qui. Qui però nell’ansia, mentre lassù nella tranquillità. Qui nella speranza, lassù nella realtà. Qui da esuli e pellegrini, lassù nella patria. Cantiamo da viandanti. Canta, ma cammina. Che significa camminare? Andare avanti nel bene, progredire nella santità. Canta e cammina”.
Riccione, Chiesa della Pentecoste, 27 agosto 2019
+ Francesco Lambiasi