Omelia tenuta dal Vescovo nel corso dell’ordinazione dei diaconi permanenti Roberto Antonini, Davide Caroli, Giorgio Pieri, e della candidatura al diaconato di Luigi Brusi
Rimini, Basilica Cattedrale, 19 febbraio 2012
Un manifesto. Si potrebbe definire il manifesto della spiritualità cristiana. Ce lo aspetteremmo di molte parole, riportate a lettere grandi, e invece ci si presenta come un piccolo brano, formulato con tono dimesso, un programma spirituale disteso su appena tre versetti. E’ ritagliato da una delle più lunghe lettere di san Paolo – la prima ai Corinzi – e ci è stato proclamato poco fa nella seconda lettura. A causa della sua modesta estensione, rischia di passare inosservato, mentre ha tutti crismi per meritare un’attenzione duplicata,: in effetti in poche righe l’Apostolo concentra una breve summa del codice etico del cristiano nella storia. Permettetemi di rileggerlo ora, in una versione un po’ più sciolta:
“Fratelli, quando mangiate o bevete o quando fate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Però agite in modo da non scandalizzare nessuno: né Ebrei, né pagani, né cristiani. Comportatevi come me, che in ogni cosa cerco di piacere a tutti. Non cerco il mio interesse, ma quello di tutti, perché tutti siano salvati” (1Cor 10,31-33).
1. Fate tutto a gloria di Dio
Di questo minuscolo frammento stupisce il messaggio diretto e il linguaggio chiaro e tondo: “fate tutto a gloria di Dio”. Nell’espressione “gloria di Dio” l’accostamento del vocabolo ‘gloria’ al santo nome di Dio potrebbe suscitare serie riserve e non poche perplessità. Nel linguaggio corrente infatti ‘gloria’ dice ‘fama’, ‘celebrità’, ‘onore’. Di qui la domanda: che Dio è un Dio che avrebbe bisogno del tributo del nostro incenso? E, visto che è Dio stesso a dire in lungo e in largo nella Bibbia di agire per la sua gloria, la domanda si reduplica e si fa persino temeraria: come può essere buono e santo un Dio che agirebbe unicamente per il proprio esclusivo interesse?
Il cortocircuito nasce da un grezzo antropomorfismo: quello di attribuire al soggetto ‘Dio’ una parola – ‘gloria’ – intesa però secondo l’accezione umana, di prestigio, rinomanza, notorietà. Se così fosse, allora il termine gloria sarebbe vocabolo davvero indecente da abbinare a Dio. Oppure avrebbe ragione il perfido Seduttore, il serpente antico, il quale ha tentato ed è riuscito – da maestro dei maestri del sospetto – a inoculare nella mente dell’uomo e della donna la torbida immagine di un Dio geloso della propria onnipotenza, pericoloso concorrente della nostra realizzazione, che avrebbe rinchiuso gli umani nello squallido carcere del mondo per rappresaglia contro la loro inalienabile libertà.
Al contrario, Gesù ci ha rivelato il volto di un Dio estroverso, in estasi gratuita, permanente, in incessante uscita-al-di-fuori-di-sé – questo significa ‘estasi’ – un Dio determinato dal solo scopo di agire in favore degli uomini, spinto dall’unico desiderio di rendersi presente per soccorrerli, soprattutto se umili e perfino indegni. Cos’è questo se non amore? Un amore purissimo, che pensa solo a dare, e non a dare per dovere, né a dare per poi avere, ma a dare solo per amore. Le prove? Sono le grandi opere di Dio. La prima, la creazione, ci mostra un Dio che ci ha creati per amarci, prima e più che per essere da noi amato. Non ci ha creati per aumentare la propria gloria, ma solo per riversare su di noi la sua gioia. Inoltre l’incarnazione ci rivela un Dio “che ha tanto amato il mondo da aver dato il proprio figlio”, ricorda l’evangelista Giovanni (Gv 3,16), il quale riporta pure quella parola solenne del Figlio: “Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”, dove ‘amici’ si deve intendere nel senso di quanti, già nemici, sono stati amati al punto da diventare amici. Come specifica Paolo:
“A stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,7-8).
Ecco dunque come Dio rivela la sua gloria: non prendendo, ma donando; non guadagnandoci qualcosa, ma rimettendoci tutto, perfino il tesoro più caro, la vita di suo Figlio. Dio mostra la sua gloria non sacrificando i suoi figli al proprio onore, ma sacrificando se stesso per la loro felicità. Un Dio la cui identità consistesse nell’affermare il proprio valore sarebbe un Dio prodotto dalla mente dell’uomo. Sarebbe un Dio pensato come proiezione all’infinito di ciò che l’uomo vorrebbe essere. Tutte le religioni affermano che l’uomo si deve sacrificare per Dio, ma solo il cristianesimo annuncia un Dio che si sacrifica per l’uomo.
Possiamo sottoscrivere allora la celebre espressione di sant’Ireneo: “La gloria di Dio è la vita dell’uomo”. In parole povere: la gloria di Dio è l’uomo che vive, è l’uomo riuscito, che raggiunge tutta intera la sua pienezza. Il vescovo Romero riprendeva e precisava l’espressione di Ireneo: Gloria Dei vivens pauper. In altre parole: Dio trova la sua gloria amando l’uomo che è povero, indigente, “quell’essere-di-bisogno che è bisogno di avere e di essere” (A. Rizzi). Una formula audace arriva ad affermare: non è perché l’uomo è amabile che Dio lo ama, ma Dio lo ama per renderlo amabile.
2. Sia che mangiate sia che beviate
Fare tutto a gloria di Dio significa pertanto vivere, pensare, parlare, agire facendo in modo che tutta la nostra vita dia a Dio la maggior gloria possibile (Ad maiorem Dei gloriam), e quindi non avere come fine dei nostri pensieri, delle nostre parole e opere, niente altro se non ciò che dà veramente gloria a Dio. Concretamente, amando lui nei nostri fratelli e amando i nostri fratelli per amore suo. E’ quanto afferma Paolo quando ci esorta ad avere “gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo” (Fil 2,5-7).
Ecco: noi diamo gloria a Dio imitando suo Figlio e assumendo anche noi la condizione di servi. Tutto questo, però, non solo nelle situazioni eccezionali e straordinarie, ma nel quotidiano, giorno dopo giorno. Il vangelo infatti non è una proposta eccezionale fatta a persone eccezionali disponibili a scelte eccezionali, e comunque anche le scelte eccezionali maturano – e non potrebbe essere altrimenti – nella ferialità ordinaria del cammino della vita, passo dopo passo. La paradossalità della vita cristiana consiste nel fatto che il radicalismo evangelico va vissuto nella concretezza, nella complessità, nella fatica, nel monotono grigiore della quotidianità. “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”, afferma Gesù secondo Luca (9,23). Ogni giorno, anche nella situazioni più consuete e minute, come possono essere il mangiare e il bere o qualsiasi altra attività, perfino la più anonima e opaca.
3. Senza cercare il mio interesse
Ecco un altro modo plastico ed efficace per dire che cosa significa “fare tutto per la gloria di Dio”. Se Dio trova la sua gloria decentrandosi e mettendosi a servizio dell’uomo, se Gesù si mette – lui! – a lavare i piedi dei discepoli e dice di essere venuto per servire, non per farsi servire, allora lo stile del servizio per il cristiano è coestensivo all’intera esistenza, dall’inizio alla fine.
Servire è verbo di identità prima che di azione. E se nella classifica dei soggetti del verbo, il primo è Dio, allora servire è molto più che un verbo regale: è verbo divino. Il servizio è un essere, prima che un fare. Pertanto il grembiule del servizio non si può indossare a giorni alterni; è la divisa che non può mai rimanere nel guardaroba del discepolo. Servire non è un frammento del nostro tempo o del nostro agire, non è una serie di prestazioni dovute, ma è semplicemente un modo di essere, di essere cristiani e basta. Questo sta a dire che non si possono vivere alcuni spazi dell’esistenza come servizio e altri come ricerca di sé. E sta a dire ancora che non si può servire per il fine di diventare grandi e importanti, per ricevere lode, onore e gloria. Servire gli altri per la propria realizzazione o gratificazione sarebbe una distorsione subdola e ipocrita, una lampante contraddizione tra l’azione oggettiva – il servizio ha per fine il bene dell’altro – e l’intenzione soggettiva che strumentalizza l’altro per il proprio, personale tornaconto. Servire gli altri per amore di Dio, non servirsene: questo è l’ideale di ieri e di sempre per un cristiano.
Mentre mi avvio verso la conclusione, mi rendo conto che il percorso di questa riflessione sul brano paolino ha finito per curvare verso il tema del servizio, un tema che si inserisce perfettamente nel contesto dell’ordinazione dei tre diaconi permanenti a cui stiamo per procedere. In effetti i diaconi sono chiamati ad esprimere, secondo la loro grazia specifica, la diaconia, ossia il servizio-ministero di Gesù Cristo, servo del Padre, servo di tutti,
“ricordando così anche ai presbiteri e ai vescovi, la natura ministeriale del loro sacerdozio, e animando con essi, mediante la Parola, i sacramenti e la testimonianza della carità, quella diaconia che è vocazione di ogni discepolo di Gesù e parte essenziale del culto spirituale della Chiesa” (I diaconi permanenti nella Chiesa italiana, 1993, n. 7).
Carissimi Roberto, Giorgio, Davide, vi auguriamo di assaporare in tutti i giorni della vostra diaconia la gioia del servizio. Ricordate sempre che questa gioia va continuamente irrorata dall’acqua viva della parola di Dio, va alimentata dal corpo e sangue di Cristo, va riscaldata dal fuoco della carità, per far fiorire il deserto spesso arido e torrido della nostra società, gravemente affetta dalla patologia più seria: l’egoismo.
Non dimenticate mai il segreto del circolo virtuoso della diaconia: chi coltiva dentro di sé la gioia del servizio, la può dare raddoppiata agli altri. E, a sua volta, chi la duplica e la moltiplica per gli altri, la centuplica dentro di sé.
+ Francesco Lambiasi