In memoria di don Ferruccio Capuccini
Omelia per il 1° anniversario della sua morte
Quel giorno Gesù aveva compiuto il segno più strabiliante della sua attività pubblica. Aveva moltiplicato i cinque pani d’orzo con due pesciolini abbrustoliti offertigli da un ragazzino per un totale di circa cinquemila persone. Ogni pane era stato moltiplicato per mille individui. La folla era andata in visibilio, al punto che stavano per venire a rapirlo per farlo re. Avevano visto il segno, ma non ne avevano intravisto il significato. Gesù era sfuggito a quello tsunami di febbre messianica e aveva cercato di sottrarre anche i discepoli dall’abbraccio soffocante della moltitudine sfamata. Per questo aveva costretto i suoi discepoli a precederlo sull’altra riva del lago di Cafarnao. La notte seguente era stata agitata, e anche il mare sembrava infuriato per il forte vento che rischiava di rovesciare la barchetta dei discepoli in affanno. Gesù era andato in loro soccorso camminando sulle acque, ma lo avevano scambiato per un fantasma. Con il brano di oggi siamo al giorno dopo. La gente aveva pedinato il giovane Rabbi galileo, ma l’incomprensione tra lui e loro era di colpo arrivata al calor bianco. Di qui lo sfogo amaro di Gesù: “Voi mi cercate non perché avete visto i segni, ma perché avete mangiato i pani e vi siete saziati” (Gv 6,26). Tradotto si potrebbe rendere così: “Voi mi avete cercato per vostro interesse e profitto, non per un genuino desiderio di accogliermi, da miei veri discepoli, come vostro vero Maestro e Messia”.
1. Questo versetto ci aiuta ad entrare nella ‘eredità’ di don Ferruccio. Lo sappiamo: l’eredità spirituale del nostro indimenticabile Don è appunto questo santuario, non nel senso della struttura materiale, che lui non ha mai considerato sua proprietà. Ma nel senso della identità spirituale del santuario, un luogo dove – secondo l’immaginario collettivo – si va a chiedere delle ‘grazie’. Ricordo che il ministero di ben 45 anni di don Ferruccio si può suddividere in tre periodi, di 15 anni l’uno: dal 1975 all’89, cooperatore parrocchiale a Misano Mare; dal 1989 al 2005, cappellano all’ospedale di Rimini; dal 2005 al 2020, rettore del santuario di Bonora.
Ora un santuario ci serve per operare tre passaggi. Il primo è passare dai doni del Signore al Signore dei doni.
Permettetemi di illustrarlo con un racconto. Israele, il primo giorno che entrò nella terra promessa, disse: “Che buono Dio!”; e danzò e tacque di stupore. Il secondo giorno disse :” Che buono Dio, che ci ha dato la terra!”; e cantò e guardò con gioia il cielo e la terra. Il terzo giorno disse:”Che buona la terra che Dio ci ha dato!”; e guardò con piacere la terra e il cielo. Il quarto giorno disse:”Che buona la terra!”; e guardò con avidità la terra. Il quinto giorno tacque, dimenticò il Padre e guardò con invidia il vicino. Nel sesto giorno ognuno cominciò a litigare con il fratello, per ampliare i propri confini. Così ebbe inizio, e continuò, tutto ciò che leggiamo nei libri di storia e sui giornali: furti e omicidi, imbrogli e menzogne, violenze e ingiustizie, oppressioni e mali di ogni tipo. Il giardino divenne deserto e tutti finirono in esilio, senza terra, senza Padre e senza fratelli. Il pane che Gesù vuole darci è quello del settimo giorno, che ci riporta dal deserto al giardino, dall’esilio alla patria.
Ma per questo, dobbiamo quindi operare sempre il passaggio dai doni al Donatore. Il pane quotidiano alimenta la vita, ma non è la vita. Chi fa del pane, di se stesso o di qualunque altra cosa – anche di un santuario – il proprio feticcio, è come uno che si innamora dell’anello di fidanzamento e non di chi gliel’ha regalato. Allora ciò che è segno perde il suo significato. Ciò che è mezzo, diventa fine. Allora la vita, anche la vita religiosa, si riduce ad un accumulo di segni senza significato, ad un ammasso di mezzi senza scopo.
Ecco dunque il primo passaggio che un santuario deve operare: aiutare quanti lo frequentano a passare dai doni del Signore al Signore dei doni. Dal Signore che si prega per ottenere qualche grazia, alla grazia che è il Signore stesso come senso e salvezza della nostra vita.
2. Inoltre un santuario deve aiutare i suoi devoti a passare dal santuario come luogo di devozione al santuario come luogo di evangelizzazione. Certo, non bisogna mettere in opposizione pietà popolare ed evangelizzazione. La pietà popolare assolve una preziosa opera per custodire e nutrire la fede del popolo di Dio. Le devozioni possono costituire un antidoto efficace alle pericolose patologie contagiate dalle sette. Possono rappresentare una garanzia di fedeltà al messaggio della salvezza. La pietà popolare può essere anche un valido punto di partenza perche la fede del popolo acquisti profondità e piena maturità.
Ma, per sua natura, il santuario è e deve essere il luogo in cui costantemente viene proclamato un messaggio di vita: il vangelo di Gesù Cristo. Al fedele che si reca al santuario devono essere proposti, direttamente o indirettamente, i punti fondamentali del messaggio evangelico: il discorso delle beatitudini, l’annuncio gioioso della bontà e paternità di Dio, il comandamento dell’amore, il significato salvifico della croce, il destino eterno della vita umana.
3. Un terzo passaggio che un santuario può e deve favorire è passare dalle varie grazie alla grazia delle grazie. Mi spiego, con un riferimento esplicito alla testimonianza del rettore del nostro santuario, don Ferruccio. Se gli avessimo chiesto qual è la grazia più importante tra tutte, ci avrebbe risposto che è la grazia di una vita cristiana vera, piena, beata. E don Ferruccio l’ha ottenuta: non la grazia di una bella vita, ma di una vita bella. Lo abbiamo visto sempre prete contento, e contento di essere prete. Aveva scoperto il domicilio della gioia.
Il segreto? Si è sempre sentito in missione. Chiamato per andare a servire, a seminare, non a mietere successi, non a compiere miracoli spettacolari, non a produrre effetti speciali. E ce lo ha ricordato con i suoi… ‘fatti’ di prete. In effetti noi non siamo né i giganti dei nostri miraggi, né i nani dei nostri incubi. Siamo solo servi inutili, non nel senso che il nostro servizio non serva praticamente a niente. Ma nel senso che siamo chiamati a servire senza riserve e senza pretese. Senza puntare su premi e medaglie. Senza la paura di minacce e castighi. Perciò non stiamo lì a romperci la testa con la partita doppia degli oneri e degli onori, degli investimenti e dei fatturati. Ci basta ricordare che l’obbedienza garantisce la missione dal rischio di coincidere con una autodestinazione. Ci basta sapere che siamo stati chiamati e veniamo mandati, perché siamo stati amati. Ci basta riconoscere che siamo stati amati non perché siamo santi e immacolati, ma per diventarlo. E questo è bastato alla sua gioia. Che basti anche alla nostra!
Santuario di Bonora, 19 aprile 2021
+ Francesco Lambiasi