Omelia tenuta dal Vescovo nella celebrazione eucaristica in apertura del Meeting – Rimini, 21 agosto 2011
Quel giorno – un giorno che fin dalle primi luci dell’alba deve essersi annunciato, per i Dodici, come il giorno più lungo da quando avevano cominciato ad andare dietro al Nazareno – dalle parti di Cesarea di Filippo, ai piedi dell’Hermon, furono pronunciate le parole più assolute e vertiginose che mai siano state dette e udite sotto la volta del cielo. Simone di Betsaida arrivò a dichiarare a Gesù di Nazaret: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù, di rimando, promise a Simone di depositare nelle sue mani le chiavi del Regno, e arrivò a dichiarargli: “Tu sei Pietro e su di te come su una pietra edificherò la mia Chiesa. Tutto ciò che legherai o scioglierai sulla terra, sarà sciolto o legato nei cieli”. I cristiani non hanno paura di riconoscere che queste parole, del tutto indeducibili da carne e da sangue, rappresentino uno scandalo invalicabile per la ragione umana. Come può un uomo – fatto di carne e sangue, e quindi di nervi e di brividi, di sogni e di sudori, di rabbie, paure, sorrisi e lacrime – essere dichiarato nientemeno che figlio di Dio? E come può un altro uomo come Pietro – fatto pure lui di sangue e di carne, ma per giunta impastato di miserie e meschinità, ferito da sbandate, imbrattato da viltà e tradimenti – venire accreditato addirittura come il luogotenente, vicario di quell’uomo-Dio? Lo ammetteva senza contorsioni diplomatiche il giovane Joseph Ratzinger, il quale al riguardo si chiedeva: “Ci è davvero lecito aggrapparci al fragile stelo di un singolo evento storico? Possiamo correre il rischio di affidare l’intera nostra esistenza, anzi l’intera storia, a questo filo di paglia di un qualsiasi avvenimento, galleggiante nello sconfinato oceano della vicenda cosmica?”.
- 1. L’uomo Gesù è Dio
Chi è dunque nella sua più profonda identità questo Gesù di Nazaret? Cosa possiamo rispondere noi, se ci lasciamo folgorare dalla sua domanda rovente: “Ma voi chi dite che io sia?”. Venti secoli di dibattito hanno registrato rischi in un senso o nell’altro: sottolinearne talmente la divinità a scapito della sua autentica umanità, oppure rimarcarne l’umanità facendo scivolare in ombra la sua piena e perfetta divinità.
Riprendiamo l’affermazione di Pietro e proviamo a leggerla in senso bidirezionale: Gesù è il Figlio di Dio; il Figlio di Dio è Gesù.
Dire che Gesù è il Figlio di Dio significa dire che Gesù “è veramente e perfettamente Dio”. Chi nega la divinità dell’uomo Gesù e contemporaneamente lo ammira e lo esalta come il più umano degli uomini, il maestro più sapiente e più generoso nel donarsi, il profeta dei profeti della fratellanza universale, cade nell’abbaglio più tragico che la storia abbia mai registrato. Perché Gesù ha preteso di essere il Figlio di Dio in persona, e dunque o sono vere le sue parole, o hanno fatto bene Erode Antipa e i soldati del pretorio a deriderlo come pazzo, e le autorità ebraiche e romane a farlo fuori.
In effetti è storicamente indubitabile che Gesù abbia accampato delle pretese straordinarie, umanamente esorbitanti. Gesù è cosciente di essere mediatore di una nuova relazione con Dio, proprio perché si pone di fronte a lui come il Figlio, l’unico, l’unigenito, l’amato: “Il Padre ha messo tutto nelle mie mani. Nessuno conosce il Figlio se non il Padre. E nessuno conosce il Padre se non il Figlio e quelli ai quali il Figlio lo fa conoscere” (cfr Mt 11,27).
Per quanto non abbia mai ostentato la sua divinità, è lo stesso linguaggio, da lui usato, a ‘tradirlo’. Ha un modo troppo familiare di parlare con Dio, fino al punto da pregarlo in dialetto e di chiamarlo Abbà, Papà. Ha un modo troppo sicuro di parlare di Dio, come l’unico che reclama di non potersi sbagliare su di lui. Ha un modo troppo presuntuoso di parlare al posto di Dio, fino ad osare di rimettere i peccati. Un linguaggiocosì strabiliante rivela la coscienza di una unità talmente inscindibile con il Padre, che soltanto la fede può credere: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,15-16).
- 2. Dio è l’uomo Gesù
Nel centro pulsante del messaggio cristiano non si incontra solo la divinità di Cristo, ma si intercetta pure l’umanità di Dio. I contemporanei di Gesù rifiutarono il suo messaggio e lo scomunicarono, perché l’immagine di Dio da lui offerta non combaciava con l’immagine di Dio da loro rivendicata. Per non naufragare nel vortice di questa insidiosa tentazione, il credente non ha altro scoglio a cui aggrapparsi dell’umile, povera, dimessa storia di Gesù, in cui contempla, con gli occhi stupiti della fede, la sorprendente tenerezza di Dio. Dalla storia di Gesù di Nazaret il cristiano apprende che la potenza di Dio non è un potere faraonico che schiaccia e annichila l’umano, ma una incredibile potenza d’amore che lo salva e lo esalta; che la gloria di Dio non oscura l’uomo, ma lo promuove e lo celebra; non lo scavalca, non lo deresponsabilizza, ma lo coinvolge in una impegnativa, appassionante collaborazione.
L’incarnazione va presa sul serio: facendosi uomo, Gesù è stato “messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato” (Ebr 4,15). Gesù è Dio che ha pensato con mente d’uomo, ha amato con cuore d’uomo, ha lavorato con mani d’uomo. Ha conosciuto la più premurosa compassione per i malati, la misericordia più sviscerata per i traviati. Ha testimoniato rabbia di fronte all’impermeabile ostinazione dei farisei. Ha provato tenerezza per i piccoli e i poveri, ha sperimentato angoscia e terrore di fronte alla morte.
Non prendere sul serio queste pagine evangeliche significa ridurre Gesù ad un super-man o ad un attore divino che gioca a recitare la parte dell’uomo. Al posto di un Dio vivente che si è fatto uomo, ci ritroveremmo fatalmente tra le mani un’idea evanescente di Dio fatta dall’uomo.
Ma sarà al mattino di Pasqua che Simon Pietro misurerà l’altezza, la lunghezza, la profondità del mistero di Cristo. Questo mistero non è un complicato rebus teologico, ma è in tutto e per tutto un mistero d’amore. Dopo la straziante morte in croce, alla luce abbagliante della risurrezione, Pietro rilegge la storia di Gesù come la rivelazione dello sconfinato, stupefacente amore di Dio per noi. Il Maestro aveva condiviso in tutto la vita dei discepoli e della povera gente, con le sue gioie e le sue pene, le sue fatiche e le sue incertezze, senza mai inseguire privilegi, senza mai esigere sconti, senza mai pretendere garanzie, esponendosi all’accoglienza e al rifiuto, all’amore più struggente, all’odio più implacabile. Non aveva abitato i palazzi del potere, non si era circondato di pretoriani o di gorilla, non aveva frequentato i circoli dei V.I.P del tempo. Aveva amato tutti, sempre, dovunque, comunque. Aveva amato i poveri e i peccatori, recando loro la gioia del Padre che guarisce e perdona. Aveva amato gli indifferenti, incalzandoli con la spina dell’insoddisfazione e suscitando in essi il brivido del mistero, mediante il racconto inquietante delle parabole. Aveva amato i superbi e i soddisfatti proclamando con parole sferzanti il rischio mortale a cui li esponeva la loro boriosa, accigliata sazietà e offrendo ad essi, dalla croce, la disarmante forza del perdono.
Ecco l’Uomo! Ecco il Dio fatto uomo! Pietro l’aveva rinnegato, e dopo aver incrociato il suo sguardo quella notte amarissima, si era sciolto in lacrime, per il tormento di averlo tradito e per la irrefrenabile commozione di vedersi da lui perdonato. Ma quando poi lo incontrò di nuovo vivo quel mattino sul mare di Tiberiade e il Risorto gli chiese per tre volte se lo amava, e per tre volte Simone di Giovanni gli protestò il suo affetto e si vide consegnare le pecore e gli agnelli della sua Chiesa, quel giorno Pietro imparò che il verbo amare, quando ha per soggetto Cristo, non può più essere declinato al passato, perché, come Dio, il Risorto è ormai l’eterno presente, e può dire non ad anni pari o a giorni alterni, ma sempre e per sempre: “Io-Sono-Amore“.
La Chiesa è la compagnia di quanti condividono con Pietro-Benedetto che credere vuol dire “tuffarsi nell’universale apertura di un incondizionato amore”. E con Pietro-Benedetto confessare Cristo vuol dire “riconoscere come Cristo l’uomo che abbisogna di me, vedendo in quella povera creatura umana lui stesso, così come qui e ora mi si fa incontro; vuol dire quindi accogliere l’appello dell’amore come rivendicazione della fede”.
Così, solo così l’esistenza diventa una immensa certezza.
+ Francesco Lambiasi