Omelia tenuta dal Vescovo nella Messa per la Vita Consacrata. Rimini, Basilica Cattedrale, 2 febbraio 2012.
Uno schianto al cuore. Deve essere stato un colpo duro, durissimo per la giovane Madre ascoltare l’annuncio scioccante del vecchio Simeone, mentre teneva tra le braccia il suo dolce neonato, di appena quaranta giorni. Dopo averlo proclamato luce delle genti e gloria di Israele, quel santo vegliardo aveva subito aggiunto: “Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione”. Al timbro stridulo di quelle parole, nel tenero cuore di Maria si mescolava il sibilo anticipato di una misteriosa spada di dolore che le avrebbe trapassato l’anima. Ma dopo un primo, interminabile attimo di panico, tutto lascia pensare che la fede abbia riportato nell’intimo più intimo della Vergine Madre una inalterabile pace. Dal giorno dell’annuncio di Gabriele, Maria aveva ormai imparato che i misteri dolorosi preludono e preparano immancabilmente quelli gloriosi. E dal giorno della presentazione del Bambino al tempio la santa Vergine avrà senz’altro conservato nel cuore le parole di Simeone, marcate da quell’abbinamento incrociato, fatto di sofferenza e di gioia, di morte e di risurrezione. Ed è più che legittimo sostenere che anche in quella quarantesima sera dopo il parto Maria avrà cantato il suo inno preferito, il Magnificat.
1. La gioia della chiamata
Collocata a mezza via tra il Natale e la Pasqua, la festa della Presentazione del Signore viene puntualmente rivissuta nelle date solenni della nostra vita di battezzati: dalla prima pasqua (il battesimo) all’ultima pasqua (la morte) si ha una continua presentazione al tempio. Questa poi si realizza in modo particolare quando si risponde a una chiamata di Cristo a seguirlo più da vicino, come avviene nella vita consacrata. La vostra vita, sorelle e fratelli, dice per il solo, nudo fatto di esserci, che il nostro pellegrinaggio terreno è un continuo andare ‘incontro’ al Cristo che viene.
Questa rilettura dell’evento che stiamo celebrando provoca una domanda che riguarda in modo particolare voi consacrati: ma è proprio vero che si può essere felici con Dio solo? Alla scuola di Maria, insuperabile modello di ogni forma di consacrazione, è possibile modulare una risposta che va in una triplice direzione.
La vita consacrata permette di gustare innanzitutto la gioia della chiamata. E’ la lieta notizia, la verità luminosa e appagante della vocazione. Per essere chiamati alla vita consacrata, bisogna prima ancora essere stati chiamati alla vita, all’esistenza nuda e cruda. Ma per essere chiamati ad esistere, occorre innanzitutto essere amati. Se siamo stati destinati alla vita e alla consacrazione è allora segno indubbio che siamo stati doppiamente amati. E amati a prescindere da ogni nostro merito, da ogni nostra attività, da ogni nostra più personale e intrasmissibile prerogativa. Noi non potevamo essere amabili prima di essere, ossia prima di esistere. Dunque il fatto stesso che noi esistiamo, sta a dire con indubbia evidenza che siamo stati amati. Ricordiamo san Giovanni: “Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi” e “ci ha amati per primo” (1Gv 4,10.19). Questo amore divino che si esprime nella duplice – ma in fondo unitaria – chiamata alla vita e alla vita cristiana, passa attraverso la fortezza dell’amore paterno e la tenerezza di quello materno, ma l’amore di Dio è infinitamente più gratuito di quello dei nostri genitori. Infatti Dio non ci ha creati perché soffriva di solitudine o per ricavare da noi qualche vantaggio o per compensarsi di qualche incolmabile vuoto. Non ci ha creati per aumentare la sua gloria, ma per riversare su di noi la sua misericordia. Ora, nella chiamata alla vita religiosa l’amore divino si declina in modo particolarissimo secondo le note dell’amore sponsale. Una delle letture preferite specialmente da voi consacrate nella Messa per la professione religiosa è l’ardente pagina del profeta Osea: “Ecco l’attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (2,16). Non è forse la certezza gratificante della chiamata la radice mistica di una incontenibile gioia?
2. La gioia della consacrazione
La presentazione al tempio significava la consacrazione a Dio del primogenito. E il gesto ne confermava l’appartenenza al Signore, secondo il libro dell’Esodo (13,2). Dell’evento l’evangelista Luca coglie soprattutto l’aspetto sacrificale: “Portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore“. L’offerta sacrificale, come consegna incondizionata e irreversibile della vittima, prelude alla Pasqua. La vita consacrata è una esistenza tutta pasquale: inizia formalmente con la professione dei voti, in cui il consacrato o la consacrata rivive il proprio battesimo, come immersione nella morte di Cristo e come rinascita nella sua risurrezione. E’ sempre assai suggestivo il rito della prostrazione dei consacrandi durante il canto della litanie dei santi. In qualche ordine femminile la monaca rimane prostrata a terra con le braccia allargate a forma di croce. Il messaggio è lampante: si muore al mondo e alle sue passioni, ai suoi miraggi e alle sue seduzioni ingannatrici, e si risorge alla vita nuova, per vivere secondo i sentimenti e gli atteggiamenti che furono in Cristo Gesù. E’ l’esperienza della gioia pasquale, che mette al primo posto l’affidarsi a Dio, il quale per noi vuole solo vita e salvezza, e a volte chiede di “preferire la croce alla gioia”, come ha fatto per il Figlio suo (Ebr 12,2), in vista di una gioia superiore.
L’esperienza di Teresa di Lisieux è illuminante: “Ho sofferto da quando mi trovo al mondo. Ma se nella mia infanzia soffrivo con tristezza, adesso non è più così che io soffro, ma nella pace e nella gioia: sono veramente felice di soffrire”. Questo non è morboso masochismo, ma cristianesimo allo stato puro. Soffrire sapendo di essere nelle mani del Padre è fonte di una serenità inossidabile, “che intender non può chi non la prova”.
L’esperienza di Gesù dice che la gioia vera, duratura, senza nubi è la gioia pasquale, quella gioia che viene dalla certezza che la vita non è fatta per la morte, ma la morte è fatta per la vita. Che non si vive per soffrire, ma si soffre per vivere.
3. La gioia dell’attesa
“Fratelli, non siate tristi come gli altri che non hanno speranza”, scriveva san Paolo (1Ts 4,13), e san Francesco cantava: “Tanto è il bene che mi aspetto, che ogni pena mi è diletto”. Per un cristiano, la gioia è coestensiva alla speranza: siamo lieti ogni giorno di sperare e speriamo un bel giorno di essere lieti per sempre. La gioia nella speranza genera la perseveranza nella prova. Esorta san Paolo: “Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera” (Rm 12,12). La preghiera ottiene pace e serenità, anche quando occorre resistere agli assalti della persecuzione, anche quando si urta contro il muro di gomma dell’indifferenza, anche quando si ha l’impressione di “lavorare in perdita”, e si attraversa il tunnel dell’insignificanza e del grigiore opprimente.
La stella polare del nostro pellegrinaggio in questa valle di lacrime è l’attesa della patria celeste, e tocca in modo particolare alle consacrate e ai consacrati tenere lo sguardo orientato verso quella “super-nova” – come l’ha definita papa Benedetto – che è la speranza. Non abbiate paura, sorelle e fratelli, di chi vi accusa di essere degli alienati, di evadere dall’impegno storico, di scaricarvi di dosso le responsabilità legate alla città terrena. La verità è un’altra: è la svalutazione della gioia dell’attesa della patria celeste che produce automaticamente la svalutazione della gioia del pellegrinaggio terrestre. Non si tratta di disprezzare le cose terrene per inseguire quelle eterne, ma di valutare con sapienza i beni della terra nella continua ricerca di quelli del cielo. Infatti “l’attesa dell’aldilà non deve indebolire, ma piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente” (GS 39).
Fratelli e sorelle, oggi nel mondo e nella Chiesa si accusa un vistoso deficit di gioia. Ma chi di noi può scagliare al riguardo la prima pietra? Non dipende forse anche da noi cristiani – pastori, consacrati, laici – che la croce, anziché diventare la scala mobile per la gioia, venga troppo spesso ridotta a uno scivolo per impantanarsi nella palude della tristezza? Il mondo non reclama da noi gesti epici né parole roboanti: si aspetta soltanto di vederci stampata in faccia la certezza di sentirci amati. La gente si attende di percepire nell’intimo di ognuno di noi il mormorio di sottofondo dell’invincibile fiducia di essere dei salvati. Forse dobbiamo ritrovare la grammatica di base della gioia: reimparare a sorridere. Spesso, anche senza accorgercene, gli altri ci vedono camminare ripiegati e inquieti. Sarà per una comprensibile stanchezza, sarà pure per preoccupazioni, amarezze e acciacchi, ma troppo spesso, purtroppo, ci mostriamo nervosi, pessimisti e perfino tristi. In un tempo incline al lamento, dobbiamo stare attenti a non diventare anche noi scorbutici e scontrosi. Dobbiamo vigilare per non rischiare di fare cattiva pubblicità a quello che chiamiamo, ben a ragione, “il nostro Sposo”. Abbiamo bisogno di rimetterci alla scuola del divin Maestro, che ci dà lezioni gratuite di felicità e ci allena a fare esercitazioni di perfetta letizia.
Carissimi fratelli e sorelle, “la luce vera che illumina ogni uomo che viene nel mondo, è venuta. Tutti siamone illuminati, tutti brilliamo. Nessuno resti escluso da questo splendore, nessuno si ostini a rimanere immerso nel buio. Ma avanziamo tutti raggianti e illuminati verso di lui. Riceviamo esultanti nell’animo, col vecchio Simeone, la luce sfolgorante ed eterna” (san Sofronio).
Che il divino Bambino presentato al tempio faccia brillare il suo volto su di voi consacrati, vi benedica per tutto il bene che fate e che siete per noi, e vi dia pace! Che Maria, a Vergine del Magnificat, vi aiuti ad essere la nostra inesauribile riserva di gioia!
Il mondo ha diritto alla nostra gioia, perché ha diritto alla testimonianza della risurrezione.
+ Francesco Lambiasi