Omelia in occasione della celebrazione della XXXII Giornata per la vita – Rimini, chiesa di s. Agostino, 6 febbraio 2010
C’è uno spunto interessante nel brano evangelico appena proclamato che ci può aiutare nell’abbrivio della riflessione sul tema di questa Giornata per la vita: è l’espressione “pescatore di uomini”, usata da Gesù per indicare la futura missione di Simon Pietro. L’espressione ricorre anche negli altri due vangeli sinottici, ma il terzo evangelista deve essersi reso conto che la metafora usata da Gesù – “pescare uomini” – rischiava di venire distorta e fraintesa: la pesca non consiste forse nel catturare i pesci, tirarli fuori dall’acqua, e quindi nel farli morire? Ma san Luca, da esperto conoscitore della lingua greca, per evitare l’equivoco si serve di un vocabolo, diverso da quello usato da Matteo e Marco, e che si potrebbe tradurre con “prendere vivi”, “pescare per la vita”. E’ il verbo usato nella Bibbia per indicare coloro che in una battaglia vengono salvati dalla morte e lasciati in vita. Poiché l’umanità intera è immersa nel mare del male, la missione di Pietro e compagni consiste nel pescare gli uomini dall’abisso della perdizione, per salvarli e assicurarli alla vita vera. Tale missione non è finita con la morte di Pietro e dei primi discepoli del Signore, ma continua nella Chiesa dei nostri giorni e si va facendo sempre più necessaria e drammaticamente più urgente.
1. La vita è il bene più grande, nessuno ne è padrone, tutti siamo chiamati a custodirla e rispettarla. Il benessere economico non è tutto, ma non per questo è indifferente al fine di rendere ogni esistenza più umana e vivibile. La Chiesa è impegnata per lo sviluppo umano integrale e ha il dovere di denunciare quei meccanismi economici che producono povertà e offendono la vita, colpendo soprattutto i più deboli e indifesi. In queste affermazioni si può condensare la sostanza del messaggio della CEI per la XXXII Giornata per la vita, dal titolo: “La forza della vita, una sfida nella povertà”.
I vescovi riconoscono che il benessere economico non è irrilevante rispetto alla questione della generazione, coltivazione e difesa della vita delle persone: infatti i beni economici possono “servire la vita, rendendola più bella e apprezzabile e perciò più umana”. La Chiesa guarda alla persona storicamente situata, nella sua unità di corpo e spirito, e pertanto ha a cuore lo sviluppo umano integrale, un obiettivo inesorabilmente sbarrato dall’indigenza e dal bisogno. La precarietà è spesso fonte di ansia e paura mentre una maggiore tranquillità economica può facilitare la serenità quotidiana con la garanzia della casa e del necessario sostentamento, delle cure mediche e dell’istruzione. I vescovi italiani definiscono “disumanizzanti” gli effetti della crisi finanziaria: la povertà, per l’assenza di un lavoro sicuro, può abbrutire la persona e farle perdere fiducia e dignità; genera inquietudine e umiliazione nei genitori, impossibilitati ad inserire i figli nella società; agevola nei giovani rassegnazione e sfiducia verso il futuro.
A partire da Cristo, la vita vera, i pastori considerano la crescente povertà di mezzi e risorse una “minaccia soprattutto per i più deboli e indifesi, nonché una causa di disuguaglianze sociali e un’offesa alla vita”. Alla scuola del vangelo e del servizio alla vita, il benessere economico non è tutto: è un mezzo e rischia di snaturarsi se pretende di sostituirsi alla vita e di diventarne la motivazione. Gesù ha proclamato beati i poveri e messo in guardia dal pericolo della ricchezza (Lc 6,20-25). I vescovi invitano ad uno stile di vita “sobrio, che non confonde la ricchezza economica con la ricchezza di vita. Ogni vita è degna di essere vissuta anche in situazioni di grande povertà”.
Talvolta, ad un uso distorto dei beni e ad un dissennato consumismo, corrispondono “una vita povera di senso e di ideali elevati”, la noncuranza verso milioni di poveri e il danno irreparabile alla terra. Non mancano persone “povere di mezzi, ma ricche di umanità e in grado di gustare la vita perché capaci di disponibilità e di dono”. Profetica l’affermazione che “non è la ricchezza economica a costituire la dignità della vita, perché la vita stessa è la prima radicale ricchezza, e perciò va strenuamente difesa in ogni suo stadio”. E’ la condanna del “delitto” dell’aborto e dell’eutanasia.
La seduzione del benessere porta a dimenticare che la vita è il tesoro più prezioso, e avvia una società assai povera ed egoista. Per l’enciclica Caritas in veritate, c’è un rapporto direttamente proporzionale tra apertura moralmente responsabile alla vita e positiva ricaduta sul piano economico. La conclusione porta all’effettiva solidarietà con quelle madri che, spaventate dallo spettro della recessione, sono tentate di rinunciare o interrompere la gravidanza. Nella ricchezza o nella povertà, “nessuno è padrone della propria vita”, ma tutti si è chiamati a custodirla e rispettarla come un tesoro prezioso dal concepimento fino al suo spegnersi naturale.
Ai vescovi brasiliani il Papa ha detto: “La questione della vita, della sua difesa e promozione non è prerogativa dei soli cristiani. Anche se dalla fede riceve luce e forza straordinarie, essa appartiene ad ogni coscienza umana che aspira alla verità. Il “popolo della vita” gioisce di poter condividere con tanti altri il suo impegno, perché la nuova cultura dell’amore e della solidarietà possa crescere per il vero bene della città degli uomini” (4 novembre 2009).
2. Ancora una volta questa vasta e ponderosa problematica deve essere ricondotta alla sua matrice antropologica. E’ il modello di sviluppo che si è inceppato e che deve essere urgentemente ricentrato su quella costellazione di riferimento, formata dalle “stelle fisse” dell’umanesimo integrale. La prima, una vera stella polare, è la trascendenza e l’insopprimibile dignità della persona umana: il primo capitale sociale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona umana nella sua integrità. L’uomo infatti è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale. Di conseguenza l’apertura alla vita è al centro del vero sviluppo. Nella Caritas in veritate Benedetto XVI ha scritto: “Quando una società si avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell’uomo. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche le altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono” (n. 28).
E’ da tenere presente inoltre che l’apertura alla vita è una ricchezza sociale ed economica. E’ scientificamente dimostrato che grandi nazioni sono riuscite a superare il tunnel della miseria anche grazie al grande numero e alle capacità dei loro abitanti. Al contrario, nazioni un tempo floride conoscono ora una fase di incertezza e in qualche caso di declino proprio a causa della denatalità, problema cruciale per le società di avanzato benessere.
Il dibattito in corso nel campo della bioetica registra, sul piano istituzionale, due fronti in movimento. L’introduzione della RU 486 fa passare l’interruzione della gravidanza dalla chirurgia alla farmacologia e porta a considerare l’aborto un diritto individuale, non un problema sociale. La soppressione della vita umana nel grembo materno si va drammaticamente banalizzando: da emergenza sociale si riduce ad atto privato, “fatto in casa”; non riguarda più la collettività, ma solamente chi lo pratica. E se l’aborto è un fatto privato, perché interessarsene o impegnarsi a prevenirlo? E’ chiaro che in un campo delicatissimo come questo non ci si può limitare a declamazioni verbali. Il momento che attraversiamo ci spinge a dimostrare concreta solidarietà con quelle mamme che, penalizzate dalla drammatica crisi finanziaria, possono essere tentate di interrompere la gravidanza. Su questo fronte occorre ricordare che i bambini nati a partire dal 1975 con l’aiuto dei Centri di aiuto alla vita (Cav) sono oltre 110mila e sono andati crescendo nel corso degli anni. Nel 2008 i bambini salvati sono stati 7.953, 12.030 le gestanti assistite e 15.841 le altre donne aiutate.
L’altro fronte è costituito dalla discutibile “iniziativa dei registri” per il cosiddetto “testamento biologico”. Come si sa, una mozione relativa all’istituzione di tale registro è stata recentemente approvata, dopo il Comune di Sant’Arcangelo, anche nel Comune di Rimini. La nostra Commissione diocesana di Bioetica ha espresso al riguardo un parere negativo – proposto in modo chiaro e con sagge argomentazioni – che si può riassumere in queste affermazioni nette e quanto mai impegnative: chi ama la vita, la dona, non la toglie; la sofferenza va alleviata e il malato non può essere né abbandonato né “fatto morire”, evitando quindi sia l’accanimento terapeutico sia ogni atto obiettivamente proeutanasico. Infatti “ogni singolo paziente, anche quello inguaribile, porta con sé un valore incondizionato, una dignità da onorare, che costituisce il fondamento ineludibile di ogni agire medico” (Benedetto XVI, Discorso al 110° Congresso nazionale della Società Italiana di Chirurgia, ott. 2008).
Concludo con una citazione tratta dal magistero delle persone che parlano il linguaggio più credibile, quello dei testimoni. E il “teste a carico” non può che essere ancora una volta il nostro indimenticabile Don Oreste:
“Insorgiamo nel nome dei nostri bambini anencefalici, dei nostri bimbi ciechi, sordomuti, in possesso solo delle funzioni vegetative, dei nostri malati in stato di coma; creature tutte che abbiamo nelle nostre case- famiglia e che curiamo con amore e dedizione per tutta la durata della loro vita. Il diritto alla vita è sacro, perché è dato da Dio a ogni essere umano; è intangibile, indipendentemente dalle condizioni fisiche, psichiche, spirituali in cui la persona si trova”.
+ Francesco Lambiasi