Parole urtanti e urticanti, quelle che ci sono state rovesciate addosso, dal vangelo appena proclamato. Se nell’ascoltarle non abbiamo avvertito alcun brivido a pelle, se non abbiamo registrato alcun colpo al cuore, Sorelle e Fratelli tutti, è forse perché, a forza di sentirle e risentirle, quelle parole dure e ruvide abbiamo finito per addomesticarle. Eppure la loro onda d’urto avrebbe dovuto farci, quantomeno, drizzare i capelli. Riascoltiamo rabbi Jeshù, che sembra mettercela tutta per farsi terra bruciata intorno, visto che una folla sterminata gli sta correndo dietro.
1. Ci racconta l’evangelista Luca (14, 25-33) che Gesù, al vedere quella marea straripante, si voltò e disse: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26). La traduzione precedente era ancora più pungente e rendeva alla lettera il verbo greco che di per sé letteralmente andrebbe tradotto con ‘odiare’: “Chi non odia suo padre, sua madre… non può essere mio discepolo”. Si tratta di un modo di esprimersi tipicamente semitico, che intende indicare una preferenza. Quindi l’odioso, spietato verbo odiare va inteso in modo analogo a quanto si legge nel libro della Genesi (29,33) dove si racconta che Lia era “trascurata” (alla lettera “odiata”) da Giacobbe, il quale le preferiva Rachele. Pertanto il discepolo viene da Gesù invitato ad amare Gesù stesso più di tutti i suoi cari, più di tutti i suoi affetti, più di tutti i propri legami più sacrosanti, quelli di sangue. Il passo parallelo di Matteo 10,37 si esprime con maggiore chiarezza: “Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me”.
Ecco allora che cosa significa seguire Gesù.
Seguire Gesù significa amare, anzi amare di più. E’ come se Gesù dicesse: “No, se non vi ho mai detto di odiare i vostri nemici, figuriamoci se adesso vengo a dirvi e a indurvi ad odiare i vostri parenti e amici!”. Piuttosto è come se dicesse: “Voi sapete quanto sia bello ricevere e dare amore, ricambiare stima e affetto, condividere amicizia, tenerezza e umana simpatia. Amèn, in verità io vi dico: io posso offrirvi ancora di più, molto di più. Posso donarvi qualcosa di più grande e di infinitamente più bello”. Un amore ancora più vincolante e, insieme, più liberante, più dolce e più forte, più avvincente e più pacificante.
Seguire Gesù significa metterlo al centro di tutto e al di sopra di tutti. Perché al centro del cristianesimo non c’è una dottrina e neppure una morale. Il cristianesimo non è una ideologia. Né una antologia di pensieri devoti e sdolcinati su Gesù. Nemmeno un dossier di formule o di ‘pillole’ dei suoi insegnamenti. Il cristianesimo è un avvenimento: l’avvenimento della morte e risurrezione di Cristo Signore. Gesù non è un grande personaggio del passato. E’ una persona vivente, oggi. Un personaggio, al limite, lo si esalta e si ammira. Una persona la si incontra, si frequenta, ci si entra in relazione. E con la sua risurrezione Gesù è la persona più presente e contemporanea ad ogni persona umana, di ogni latitudine, di ogni epoca della storia, di ogni stagione della vita.
Seguire Gesù significa aderire alla sua persona. Non solo accettare il suo insegnamento, ma condividere la sua esistenza, partecipare alle sue scelte, amare come lui ha amato. Cosa impossibile se lui stesso non ama in noi. E’ impossibile andargli dietro se lui stesso non viene a vivere dentro di noi. Allora ogni cristiano può arrivare a dire: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Seguire Gesù significa perciò non ridurlo a un modello esteriore. Non si tratta di ripetere meccanicamente quello che Gesù ha fatto, ma di comportarsi come lui si comporrebbe adesso al nostro posto.
2. Seguire Gesù significa portare la propria croce. “Chi non porta la propria croce, non può essere mio discepolo”. ‘Croce’ è l’altra parola non meno aspra e tagliente di quella sulla sequela, finora presa in considerazione.
Noi diciamo croce e pensiamo a dolore. Ma se guardiamo al Crocifisso, quando diciamo croce, più che a dolore dobbiamo pensare ad amore. Occorre uscire dall’interpretazione dolorista e mortificante che, nell’immaginario collettivo, viene evocata dalla croce. Se andiamo a consultare in un computer la lista del thesaurus del programma word, si contano ben 14 sinonimi di ‘croce’, come: pena, tormento, supplizio, disgrazia ecc.
In effetti la croce ha sempre fatto paura e continua ancora a fare problema. Una ventina d’anni dopo la vicenda del Golgota, s. Paolo, scrivendo ai cristiani di Corinto afferma che il vangelo della croce è scandalo e follia: scandalo per gli ebrei, per i quali “un Messia che si rispetti”, mandato da Dio per incenerire i suoi nemici, non è neanche lontanamente concepibile che vada a finire miseramente su una croce. Ed è follia per i pagani, i quali non riusciranno mai ad ammettere che un sedicente salvatore non sia riuscito a salvare se stesso dalla morte e dalla morte di croce.
Ma se vogliamo capire qualcosa della croce di Cristo, dobbiamo guardare a Cristo in croce. Il Crocifisso vive l’immane dolore della croce nell’amore, in un amore fino alla fine, anzi fino in cima. In cima al patibolo infamante e straziante, Gesù subisce una violenza totalmente ingiustificata e ne fa l’occasione per una dedizione totalmente incondizionata. Gesù soffre per amore, non ama per soffrire.
Il cristiano crede e sa che il portare la croce “dietro a Gesù”, se non ci risparmia fatica e sofferenza, ci rassicura che in nessun passaggio siamo soli. Ci consola che il Maestro è sempre davanti a noi. Accanto a noi. Dietro di noi. Dentro di noi. E custodisce, anticipa e accompagna il nostro cammino con la sua presenza tenera e tenace.
In breve, riprendiamo le tre condizioni irrinunciabili per essere e vivere da discepoli. La prima: amare Gesù al di sopra di tutto e di tutti. La seconda: portare la propria croce. La terza, altrettanto radicale e provocante, la troviamo nell’ultima riga del brano evangelico: “Chi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Siamo sempre nella logica della sapienza della croce, che possiamo condensare così. I verbi della felicità evangelica non sono il verbo avere, ma amare. Non il verbo possedere, ma donare. Non il verbo dominare, ma servire.
Così il dolore non è eliminato dalla nostra esistenza, ma viene trasfigurato dall’amore.
E l’amore si fa promessa di vita e premessa di un futuro che non finirà.
Rimini, Chiesa di S. Giovanni Battista – 4 settembre 2022
+ Francesco Lambiasi