Distinte Autorità,
Mentre vi saluto con sincera, rispettosa gratitudine per la vostra preziosa presenza, permettetemi di premettere una brevissima, ma schietta dichiarazione di intenti. Non vengo qui a tenere una sorta di lectio magistralis di cui voi non avete certamente bisogno, mentre io non ne avrei alcuna competenza e non me ne permetterei comunque. Sono qui a condividere con voi in tutta semplicità osservazioni, pensieri e riflessioni riguardo a due ‘questioni’ particolarmente drammatiche: i giovani e la questione ecologica. Inutile dire che si tratta di questioni strettamente legate e intrecciate, che non possono non vederci concordi e convergenti, nei nostri rispettivi ambiti di responsabilità. Superfluo anche rimarcare che, riguardo ad ambedue le questioni, noi – ne sono sicuro – dobbiamo e vogliamo essere distinti, senza essere distanti, né tantomeno separati e contrapposti. Ma connessi, senza risultare confusi.
Con-patire (= patire-con) i giovani
C’è oggi una sorta di “fatica a essere giovani”: è la difficoltà delle nuove generazioni a vivere in pienezza la propria età, in un tempo in cui tutti – a prescindere dal certificato di nascita – fanno di tutto per essere e restare giovani. Questo dilagante “amore per la giovinezza” rende semplicemente impossibile la vita di coloro che giovani lo sono per davvero, gettando alle ortiche la generatività, ovvero quel tratto qualificante dell’età adulta che si preoccupa di mettere al mondo, di far crescere, di educare e poi lasciare spazio. Generatività significa soprattutto suscitare curiosità e domande cruciali: perché esisto? per chi e per cosa vale la pena vivere?
E’ anzitutto per questa ragione che i giovani di oggi non solo non credono più nelle religioni, nei partiti, nel futuro, nella società, ma hanno proprio smesso di declinare il verbo ‘credere’. Che significa ‘fidarsi di’ e ‘affidarsi a’. Perché è chiaro che, se non vengono provocate le grandi questioni nel cuore dei ragazzi, nessuno di loro si sognerà mai di andare a cercare le risposte nelle istituzioni civili o religiose.
La situazione in corso ormai da diverso, troppo tempo è davvero paradossale, ed è stata formulata con un titolo choccante: “Tutti giovani, nessun giovane” (A. Matteo). Papa Francesco la fotografa così:
La cultura di oggi presenta un modello di persona strettamente associato all’immagine del giovane. Si sente bello chi appare giovane, chi effettua trattamenti per far scomparire le tracce del tempo. I corpi giovani sono utilizzati costantemente nella pubblicità, per vendere. Il modello di bellezza è un modello giovanile, ma stiamo attenti, perché questo non è un elogio rivolto ai giovani. Significa soltanto che gli adulti vogliono rubare la gioventù per sé stessi, non che rispettino, amino i giovani e se ne prendano cura (Christus vivit = CV, 79).
La conseguenza è drammatica: con l’adorazione del mito della giovinezza, viene meno la vocazione alla adultità, che consiste nel dimenticarsi di sé per prendersi cura degli altri. In altre parole: finché gli adulti vogliono fare i giovani, non permetteranno mai ai giovani di diventare adulti. I ragazzi, orfani di senso, intravedono una via d’uscita dal nichilismo adulto, in un nuovo eroismo: vorrebbero essere come Greta Thunberg, avere una visione che li definisca, li unisca e dia senso alla vita.
Ecco allora la prima cosa che noi adulti dobbiamo assumerci: la responsabilità di fare. Dobbiamo imparare a con-patire i giovani. Non nel senso pietistico del compatirli o commiserarli, ma in quello letterale del ‘soffrire-con’ i giovani. Il Papa, per conto della Chiesa, parla espressamente di “piangere di fronte al dramma dei suoi figli giovani” (CV 75). In effetti dobbiamo prepararci a soffrire dinanzi allo spettacolo che noi stessi abbiamo realizzato: quello di una società di adulti che costringe i giovani a convivere con un senso di superfluità e con l’idea di essere un ‘problema’. Mentre essi rappresentano l’unica autentica risorsa a disposizione per non trasformare le nostre città in ospizi a cielo aperto.
Incontrare i giovani
Lo sappiamo. Con i giovani non possiamo barare. Non possiamo sciacquarci la bocca con i soliti gargarismi di una retorica volgare e insolente. Come quando diciamo che i giovani sono il nostro futuro, quando poi noi adulti, il futuro, glielo abbiamo già scippato. Sarebbe davvero un grave delitto. E per noi Chiesa, un gravissimo sacrilegio. Perché il cuore di ogni giovane deve essere considerato “terra sacra”, portatore di semi di vita divina e davanti al quale dobbiamo “toglierci i sandali” per poterci avvicinare e approfondire il Mistero (cfr CV, 67).
Incontrare i giovani significa ascoltarli sul serio e guardarli da vicino, senza paraocchi e senza pregiudizi. Significa aprire bene le orecchie perché si schiudano i nostri occhi.
A noi, comunità cristiana, il Papa chiede di accogliere generosamente gli stimoli che ci provengono dai giovani. In particolare l’esigenza di avere l’aiuto di accompagnatori di qualità: credibili, generosi, creativi e coinvolgenti.
Ma ci chiede pure di “creare più spazi dove risuoni la voce dei giovani” (CV, 38). E ci chiede ancora non solo di ascoltare le critiche dei giovani, ma anche di provocarle, con un ascolto attento e disponibile. E, senza giri di parole, ci propone il seguente elenco piuttosto impietoso:
gli scandali sessuali ed economici; l’impreparazione dei ministri ordinati che non sanno intercettare adeguatamente la sensibilità dei giovani; la scarsa cura nella preparazione dell’omelia e nella presentazione della Parola di Dio; il ruolo passivo assegnato ai giovani all’interno della comunità cristiana; la fatica della Chiesa di rendere ragione delle proprie posizioni dottrinali ed etiche di fronte alla società contemporanea (CV, 39).
Occorre dunque ascoltare per guardare, con sguardo sereno e partecipe:
lo sguardo attento di chi è stato chiamato ad essere padre, pastore e guida dei giovani consiste nell’individuare la piccola fiamma che continua ad ardere, la canna che sembra spezzarsi ma non si è ancora rotta (cfr Is 42,3). È la capacità di individuare percorsi dove altri vedono solo muri, è il saper riconoscere possibilità dove altri vedono solo pericoli (CV, 67).
Camminare-con i giovani
Dobbiamo imparare a declinare il lessico della sinodalità. Questa parola non è l’ultimo abracadabra ‘cattolichese’: è una parola nobile, che viene da lontano, dall’antica Grecia. Letteralmente significa “camminare-con”. Indica uno stile e richiama un impegno. In effetti il vero educatore è colui che ha il coraggio di lasciare la responsabilità in mano ai giovani, con la consapevolezza e il dovere di rimanere accanto a loro.
Dobbiamo, pertanto, dare fiducia. Il che significa non lasciarli soli, ma accompagnarli in un percorso di cambiamento, non solo supportando le loro idee, ma in primo luogo credendo in loro.
Inoltre dobbiamo garantire credibilità. Il che significa mostrare con la nostra vita e con le nostre azioni di aver ascoltato il loro grido, diventando per loro un esempio di coerenza.
Ancora, dobbiamo assicurare vicinanza. Il che significa assicurare cordiale empatia e schietta simpatia. Ma senza trucchi e senza maschere. Con rispetto e delicatezza, con stima sincera e con intensa gratitudine. Non dobbiamo prenderli in braccio. Non dobbiamo mai imporre, ma sempre e solo ‘proporre’…
Dobbiamo anche evitare ogni paternalismo, sia in versione buonista, che in salsa giovanilista. I giovani non hanno sempre e tutte le ragioni. Essi sono (anche) una fonte seria di preoccupazione: quando ostinatamente si mettono sulle tracce di ciò a cui si concedono solo per istinto; quando si lasciano andare alla prima cosa che salta loro in testa; quando non tengono in nessun conto il bisogno di tenacia per dare gambe ai propri sogni.
A loro don Oreste diceva: “Ribellatevi! non con la violenza, ma con la vita! Senza mai demordere, siate come un rullo compressore vivente che non lascia tranquillo nessuno e non scendete mai a compromessi”.
Noi adulti, Rappresentanti delle varie Istituzioni, abbiamo bisogno di questa ribellione non violenta, perché è l’unica capace di svegliarci dal torpore che a vari livelli sta distruggendo la nostra società.
Educazione, economia, politica
A questo punto, ci si potrebbe domandare: “Tutto questo discorso sembra riguardare solo la Chiesa, o comunque ha tutta l’aria di riguardare noi, Responsabili della vita civile, sociale, politica, ma solo di lato. A noi però interessa anche confrontarci con quanto dice la Chiesa riguardo a ciò che noi, in prima linea, dovremmo fare ‘per’ e ‘con’ i giovani”. Mi permetto pertanto di condividere alcuni punti, che sono sicuro troverete anche voi come necessari, anzi urgenti, opportuni e praticabili.
– Anzitutto favorire l’inclusione dei giovani più poveri.
La cronaca quotidiana ci racconta di innumerevoli episodi che testimoniano l’urgenza di stringere alleanze forti tra le Istituzioni che sono chiamate ad accompagnare la crescita dei giovani. Di fatto appaiono sempre più spesso come i nuovi poveri. Una povertà esistenziale, tipica di “bambini orfani di genitori vivi” e di “giovani disorientati e senza regole” (Papa Francesco). Ma quella dei giovani è anche povertà sociale, che li vede convivere a forza con una condizione lavorativa umiliante.
La ricerca sulla povertà giovanile “Poveri Giovani!”, promossa dalla Caritas diocesana di Rimini, riporta i dati relativi a 508 giovani intervistati, tra i 18 e i 35 anni. I dati sono stati raccolti attraverso questionari, focus group e alcune inchieste. Dei giovani intervistati, il 20% si trova in situazione di povertà (105 ragazzi). Coloro che hanno maggiori difficoltà sono ragazzi dai 29 anni in su, cioè chi si sta formando una propria famiglia. Il 9,9% del campione è in una situazione di povertà assoluta (28 giovani) che non riescono a sostenere nessun tipo di spesa. Inoltre circa il 60% ha mostrato di non conoscere gli enti o le strutture che possono dare assistenza in casi di difficoltà.
– Farsi carico della disoccupazione giovanile
Il mondo del lavoro è un ambito in cui i giovani sperimentano forme di esclusione ed emarginazione. Oltre a renderli poveri, la mancanza di lavoro recide nei giovani la capacità di sognare e li priva di dare un contributo allo sviluppo della società. Il lavoro per un giovane non è un’attività finalizzata a produrre un reddito. E’ una espressione della dignità umana. Un cammino di maturazione e di inserimento sociale. Uno stimolo costante a crescere in termini di responsabilità e di creatività. Una protezione contro la tendenza all’individualismo e alla comodità.
– Promuovere la cultura e l’educazione civica
La scuola è deputata alla crescita integrale dei giovani. Non può limitarsi a dare loro soltanto nozioni e strumenti operativi, ma deve trasmettere ragioni per vivere e valori di riferimento per l’educazione della/alla libertà. Gli insegnanti si assumano la responsabilità di essere veri educatori, che con attenzione piena di simpatia, valorizzino le energie interiori degli alunni, facciano emergere le domande profonde, prospettino nuovi orizzonti, e si lascino essi stessi educare. Particolare attenzione deve essere data alla educazione civica e alla custodia della ‘casa comune’.
-Educare ad abitare l’ambiente digitale
L’ambiente digitale rappresenta una sfida ineludibile nella formazione dei giovani. I ‘nativi digitali’ necessitano di essere accompagnati in un discernimento sulle modalità di ‘abitare’ oggi in un ambiente fortemente digitalizzato che permetta di coglierne le opportunità e di scongiurarne i rischi.
Giovani e questione ecologica
Stiamo vivendo un’epoca storica di profondi cambiamenti che ci costringono ora più che mai a guardare con attenzione e preoccupazione al futuro delle nuove generazioni. Un futuro fortemente compromesso dal rapporto distruttivo che l’uomo ha tenuto nei confronti dell’ambiente e dalla concezione di una economia di sviluppo ormai insostenibile.
Le recenti manifestazioni che hanno riempito le piazze di tutto il mondo in favore dell’ambiente ci dicono chiaramente che siamo in ritardo. I giovani sono un passo avanti a noi, ci hanno preceduto nel capire la gravità della situazione. Sicuramente non hanno tutte le soluzioni in mano, ma hanno scelto di non restare a guardare.
Loro sono la dimostrazione che le piccole azioni hanno davvero il potere di cambiare il mondo. Solo un anno fa, Greta Thunberg ha protestato davanti al parlamento del suo paese, con un cartello che riportava: “sciopero scolastico per il clima”. Da quella prima protesta, gli scioperi scolastici, “i Global Strikes”, hanno preso piede nelle principali nazioni di tutto il mondo. Questo ci fa capire che non si è mai troppo piccoli per fare la differenza.
E noi adulti invece? Quale deve essere il nostro comportamento di fronte a tutto ciò? Dobbiamo sopportare o piuttosto supportare i giovani che stanno gridando con tutta la loro forza la necessità di cambiamento?
Io credo che il primo passo da fare sia quello di dare responsabilità a questi giovani e non solo nell’ambito delle problematiche ambientali. Questo lo dico principalmente a me e alla nostra Chiesa, ma mi permetto di condividerlo con tutte le Istituzioni qui presenti. Nel luglio del 1994 Don Oreste Benzi scriveva:
I giovani sentono non solo oggi ma da sempre il bisogno profondo di essere protagonisti della storia senza essere ammalati di protagonismo. Ma la storia di oggi a chi è in mano? È in mano agli adulti e agli anziani ed è per questo che i giovani si ribellano”.
Una ribellione dovuta al non sentirsi ascoltati, anzi a volte al sentirsi incompresi, giudicati, presi in giro, come dimostrato anche dalla cronaca di queste settimane. Una sedicenne ha risvegliato nella sua generazione la nostalgia di una vita ‘naturale’. Ma, prima di “che mondo lascerete ai vostri figli?” credo che ci stia chiedendo “a quali figli lo lascerete?”. Un mondo nuovo lo sapranno curare e sviluppare solo quelli a cui avremo dato non solo la vita, ma il senso della vita. E che senso ha? Lo sappiamo dire loro? La risposta non ce l’hanno né il Progresso né la Natura. La ‘cosa’ da fare allora è chiedere periodicamente a questi figli: “Che cosa fai oggi per rendere la vita migliore di come l’hai trovata?”. E se di rimando ci chiederà: “E tu cosa fai?”. Non limitiamoci a rispondere: “Io ho fatto te”. Ma allora cosa risponderemo?
Allora che fare?
Mi rendo conto che il tema di una ecologia integrale richiederebbe una riflessione ampia e articolata che potrebbe superare di molto sia i margini del tempo residuo che i contorni del presente contesto. In effetti i livelli di quella che papa Francesco chiama “conversione ecologica” sono fondamentalmente tre, ovviamente tutti e tre in interrelazione tra di loro: il livello politico nazionale e mondiale; quello della vita quotidiana personale e familiare; e il livello intermedio, quello amministrativo e culturale in ambito locale (quartieri, comuni e circoscrizioni varie).
E’ a questo livello che propongo le seguenti riflessioni.
E’ indispensabile e urgente promuovere una ecologia ambientale, culturale e sociale in stretta connessione con l’analisi dei contesti umani, familiari, lavoratori, urbani, tenendo presente che “ogni lesione della solidarietà e dell’amicizia civica provoca danni ambientali” (Benedetto XVI).
Inoltre l’ecologia culturale richiede anche la cura delle ricchezze umane locali, ricordando che la cura dell’ambiente dev’essere flessibile e dinamica.
Va anche tenuto presente che la qualità della vita nella Città è legata alla mancanza di alloggi, ai trasporti e al traffico (consumo di monossido di carbonio), allo stato di disagio delle periferie urbane ed esistenziali, alla qualità della nostra riviera, allo smaltimento dei rifiuti ecc., senza mai dimenticare che l’ecologia umana è inseparabile dal principio basilare del bene comune, che riveste un ruolo centrale e unificante nell’etica sociale.
Termino con l’augurio di papa Francesco: “Che le nostre lotte e la nostra preoccupazione per questo pianeta non ci tolgano la gioia della speranza!”
Rimini, Episcopio, 14 ottobre 2019
+ Francesco Lambiasi