Omelia tenuta dal Vescovo nel corso della celebrazione eucaristica per l’apertura del Meeting 2010 – Rimini, 22 agosto 2010
1. Dio è Padre, ma il suo è un cuore di madre. Lo aveva confidato il Signore stesso a Israele, cinque secoli prima di Cristo, per bocca di Isaia, nel cui rotolo è scritto: Si dimentica forse una mamma del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? (Is 49,15).
Ma solo Gesù poteva dirci fino a che punto si spinge il cuore materno di Dio Padre: fino al punto da sognare per i suoi figli la felicità più appagante che si possa pensare, anzi fino al punto da preparare per essi un pieno di felicità straripante, quale non si possa neanche lontanamente immaginare. Per questo il Padre, volendo realizzare il capolavoro della sua arte creatrice – l’uomo – lo ha dotato di “quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi: il cuore”. E ha apposto in calce al cuore il suo autografo: il desiderio della felicità, di una felicità a misura dei figli di Dio, incontaminata, interminabile, indistruttibile; una felicità umana, corposamente umana, non meno che divina. Il nome più appropriato a questo desiderio di felicità è desiderio di Dio. Ogni cucciolo d’uomo viene al mondo, portandosi incorporato nel suo Dna la nostalgia della Patria. In effetti il desiderio di Dio, che ci arde in cuore, non ce lo siamo dato noi: viene da Lui. E’ un desiderio che comincia all’accusativo e non al nominativo. Desidero Dio perché Dio desidera la mia felicità. Per questo ha acceso in me la sete di Lui. Non possiamo erigerci presuntuosamente a creatori del desiderio, ma siamo chiamati ad essere umilmente testimoni stupefatti dell’avvenimento.
E l’avvenimento è accaduto: Gesù è venuto a comunicarci che non siamo fatti solo di terra; siamo fatti anche di cielo. E’ venuto a confidarci che la nostra felicità raggiungerà il massimo quando Dio sarà tutto in tutti e noi suoi figli saremo in comunione tutti con tutti: Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Nell’odierna sequenza evangelica Gesù dipinge la felicità con i colori squillanti della festa: una sconfinata sala strapiena; una mensa imbandita; un brulichio di volti, di moltitudini, di linguaggi; un vorticoso intrecciarsi di arrivi, di abbracci, di canti, di danze. Una festa senza fine: lo Spirito di Dio, nel cuore di ognuno; il Figlio di Dio, che passa a servire i commensali; il Padre, che gode una gioia straripante perché vede radunati in casa tutti i suoi figli, ritornati finalmente fratelli, capaci di perdonarsi e di fare festa tutti insieme.
2. Torniamo al cuore. Minuscola particella del creato, il cuore dell’uomo è come una goccia di rugiada che riflette l’intera volta del cielo. O, se si vuole, nell’intero universo il cuore è come un granello di polvere, aperto al mare, senza sponde, di un mistero sconfinato. E’ come una voragine senza fondo, come un crepaccio riarso di Assoluto: un baratro è l’uomo e il suo cuore un abisso (Sal 64,10). Circoscritto nei suoi limiti, illimitato nelle sue aspirazioni, il cuore umano risulta malato di una patologia grave: il narcisismo. Il peccato delle origini ha ferito il cuore dell’uomo, facendolo ripiegare su se stesso e illudendolo di poter trovare una felicità tutta per sé, senza Dio e senza gli altri. Ma essere felici da soli non è difficile: è impossibile. Se vivere è condividere la vita – è con-vivere – la felicità è nella convivialità delle differenze. Se la vita terrena non viene vissuta come un allenamento a mangiare tutti assieme – il mangiare da soli è di una inconsolabile tristezza e di una noia ammorbante – quando l’uomo cade vittima del miraggio di poter essere felice da solo, si autocondanna all’infelicità. Per questo Omero, da qualche parte, dice che l’uomo è “il più infelice di quanti animali respirano sulla terra”.
3. Acuto esploratore delle abissali profondità del cuore umano, Don Giussani ha messo magistralmente in luce la dinamica del desiderio della felicità. Lo ha fatto con un racconto che verrebbe da intitolare “la parabola della piazza”. Un gruppo di gente si ritrova a parlare nella piazzetta del villaggio. Passa uno, si ferma a parlare con loro, dicono: “Quest’uomo è meraviglioso”. Scocca la scintilla del desiderio: il desiderio che quell’uomo lì rimanga, che quell’uomo lì metta a posto le faccende di casa, che quell’uomo lì risponda a urgenze, emergenze, attese. La fede nasce come riconoscimento di una Presenza eccezionale: Cristo. L’esperienza dell’incontro con la sua presenza fa scaturire nel cuore dell’uomo un desiderio circa il futuro: il desiderio che le attese più alte si compiano. Ma come può questo desiderio diventare speranza, incrollabile certezza che il desiderio nel futuro si compirà? La certezza che questo accadrà può derivare soltanto dalla fede, “solo in quanto uno si abbandona, si fida e si abbandona alla Presenza che la fede ha indicato”. Insomma il desiderio non è autogarantito contro l’infortunio di non avverarsi, ma diventa sicuro di sé, che cioè si attui quello che il cuore desidera perché la grande Presenza non solo ha suscitato il desiderio, ma ha promesso che si compirà. Infatti la grande Presenza coincide di diritto e di fatto con la grande Promessa (Si può vivere così?, pp. 188-194).
4. Facciamo un ultimo passo. La domanda posta a Gesù era: Sono pochi quelli che si salvano? Gesù non risponde sul numero dei salvati, ma sulle condizioni, che si riassumono in una sola, irrinunciabile: bisogna sforzarsi di passare per la porta stretta. La porta del Regno è fatta con le assi che vengono dall’albero della croce, ma è stretta, perché ha per misura quella del Dio fatto bambino. Ecco la condizione per passare per la porta stretta: diventare come bambini, farsi piccoli; lasciare fardelli e bagagli; sgonfiarsi di presunti meriti e di immaginari titoli di credito; alleggerirsi di ansie, affanni e angosce; svuotarsi di rabbie, sgombrarsi di amarezze. Altrimenti ci sentiremo dire: “Voi, non so di dove siete”. Ma come, tutta la vita a cercarti, ad ascoltarti, a celebrarti, e ora tu ci allontani? Niente da fare: possiamo bussare quanto vogliamo, ma la porta rimane ineluttabilmente chiusa, desolatamente sprangata. Come fare allora per essere riconosciuti dal Signore? Io vengo riconosciuto da lui, se lui potrà specchiarsi in me, se nel mio cuore troverà tracce e riflessi del Figlio, fatto piccolo bambino, se leggerà nel mio cuore “gli stessi sentimenti di Cristo Gesù”. Ricordiamo la lezione di Nicodemo: uno non può rinascere quando è vecchio. Forse diversi tra di noi debbono onestamente ammettere: “Io sono ancora giovane, Signore, ma sono tanto vecchio dentro al cuore”. Tutti abbiamo bisogno di un cuore di fanciullo, ma nessuno è capace di procurarselo da sé. Eppure il comando del Signore è inesorabile: Se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli (Mt 18,3). Solo il Padre nostro che è nei cieli può trapiantare in noi il cuore del Figlio fatto bambino. E il bambino sa di non meritarsi nulla, e accoglie tutto come dono. Infatti il regno di Dio non è un privilegio per pochi raccomandati di lusso; è un dono. E un dono non si merita, ma si accoglie. Chi non accoglie il regno di Dio come l’accoglie un bambino, non entrerà in esso (Lc 18,17). Solo chi è mite e umile di cuore come Gesù, può desiderare cose grandi.
A fare sintesi di questi pensieri ci può aiutare ancora Don Giussani: “Quel più che ognuno desidera, quel più vago ma urgente, quel più ignoto, spesso o normalmente incosciente (…) diventa una realtà altrettanto pesabile, familiare, chiara, come una persona con cui si faccia dialogo continuamente a mensa, con cui si viva sotto lo stesso tetto, si mangi, si discorra” (La familiarità con Cristo, pp. 178s).
Nel messaggio inviato ai promotori e ai partecipanti di questo Meeting, il Card. Segretario di Stato ricorda che “in uno dei suoi momenti di preghiera, San Tommaso d’Aquino sentì il Signore Crocifisso dirgli: ‘Hai scritto bene di me Tommaso; che cosa desideri?’. ‘Nient’altro che Te’, fu la risposta del Santo dottore. ‘Nient’altro che Te’. Imparare a pregare è imparare a desiderare e, così, imparare a vivere”.
+ Francesco Lambiasi