Omelia nella celebrazione esequiale per Simone Ugolini
Abbiamo bisogno di tacere. Siamo di fronte alla morte di un giovane: ci occorre rispetto e misericordia. In questi giorni si è parlato troppo. Siamo rimasti sommersi da una spropositata tempesta mediatica. Abbiamo bisogno di silenzio per ritrovare parole vere, per liberarci dal vaniloquio di chiacchiere vuote, per affrancarci dalle stucchevoli litanie di slogan stonati, se non addirittura ipocriti. Abbiamo bisogno di disintossicarci dall’ammorbante inquinamento acustico prodotto da interminabili scariche di rumori assordanti, di immagini irriguardose, per non esiliare domande alte e irrinunciabili, per riuscire ad ascoltare voci sacrosante e imprescindibili. Abbiamo bisogno di venire risparmiati dalla morbosa voglia di notizie piccanti, una voluttà che ci fa sordi alla comunicazione della “buona notizia”. Il silenzio che ci serve non è solo assenza di chiasso. Non è solo il vuoto di schiamazzi. Abbiamo bisogno di reimparare a tacere per ascoltare, perché solo quando avremo taciuto noi, Dio, nostro Padre, potrà parlare.
Abbiamo bisogno di tacere per ascoltare. Per ascoltare Gesù. Tacere per non riempirci la bocca di parole senza cuore. Per non andare in automatico con formule da brivido, come quando diciamo imperterriti: “La morte di questo giovane è stata volontà di Dio”. Permettetemi di ridire sottovoce a me e a voi qual è questa benedetta volontà di Dio, e di dirlo non con il manierato gergo ecclesialese, ma con le limpide parole pronunciate da Gesù sotto i cieli alti della Palestina, mentre a Rimini si stava ultimando il ponte di Tiberio: “Questa è la volontà del Padre mio: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno” (Gv 6,39).
Tacere per ascoltare Gesù il quale ci dice che il Padre suo non è il Dio dei morti, ma dei vivi. Il Signore della vita non è il gelido monarca che regna su uno sterminato cimitero di morti, defunti e sepolti… Per questa rivelazione che ci è offerta dalla parola di Gesù, noi siamo chiamati e abilitati a credere alla risurrezione della nostra povera carne mortale. Possiamo credere alla vita eterna. Certo, non sappiamo quando e come sarà: sappiamo molto di più, sappiamo che sarà. E, di conseguenza, sappiamo che la vita, ogni vita come la vita di Simone, è sacra, e che Dio non si è pentito di avergliela donata. No, la nostra vita non è un pacco postale spedito dall’ostetricia all’obitorio. E’ una vita fatta per non finire. Mai. Ma per accogliere questo messaggio, dobbiamo rieducarci ad ascoltare.
Abbiamo bisogno di ascoltare la parola di Gesù per tornare a imparare a piangere. In un salmo che vale l’intero salterio è scritto: “Le mie lacrime nell’otre tuo raccogli”. Come a dire: Dio non può non provare dolore per il dolore dei suoi figli. Dio è il paziente, meticoloso raccoglitore delle mie lacrime, perché neppure una ne vada perduta, e vuole trasformarle tutte in una stupenda collana di perle preziose. Noi cristiani non possiamo fare gli scandalizzati quando vediamo una mamma o un papà, un fratello o una sorella piangere per la perdita di una persona cara. Saremmo noi semmai a dare scandalo. In fondo, siamo o non siamo discepoli di Gesù che ha pianto a singhiozzo per la morte dell’amico Lazzaro, che ha provato una fitta al cuore nel vedere la povera vedova di Nain affianco alla bara del giovane figlio morto? Chissà che non sia stato proprio questo il motivo che l’ha fatto scendere in mezzo a noi: che cioè si sia invaghito delle nostre lacrime?! Così, lui, l’Onnipotente, facendosi uomo, ha voluto rendersi impotente per assaporare l’amaro sapore delle nostre lacrime, e per questo ha dovuto imparare a piangere… E non dovremmo anche noi reimparare a piangere, visto che le lacrime possono diventare l’ottavo sacramento della nostra salvezza?
Abbiamo bisogno di piangere se non vogliamo diventare cinici, e imparare a condividere da fratelli gioie e dolori, non a dividerci e a contrapporci tra nemici. Abbiamo bisogno di riscoprire la cultura del noi. Abbiamo bisogno di ricordare che l’errore è un male che va riconosciuto e riparato non con la riproposizione raffinata e ipocrita della legge del taglione, ma per rispondere alla colpa con un progetto educativo serio ed efficace. Per non confondere l’errore con l’errante. E perché nessuno di noi può scagliare la prima pietra.
Tacere, ascoltare, piangere, condividere: sono quattro gradini da salire per riuscire a “riveder le stelle” e non scendere, invece, a precipizio nella buia voragine del nulla.
Carissimi mamma Eria, papà Feo, fratello Stefano con la tua amata Giulia, permetteteci di abbracciarvi e di piangere con voi. Permetteteci di custodire nel cuore due istantanee che ci avete consegnato ieri sera tramite don Davide: quella del piccolo Simone che, quando cadeva, si rialzava da solo senza rimanere a terra a fare le lagne. E quella di Simone, giovane maturo e generoso che, quando si è trattato di dare una mano in famiglia, ha rinunciato senza se e senza ma al suo desiderio di viaggiare per il mondo, per partecipare invece al lavoro del babbo. Ed ora permetteteci di condividere con voi il messaggio che i suoi amici hanno scritto su uno striscione, appeso sul luogo dell’incidente mortale: “Sei sempre con noi”. Sì, Simone vi accompagnerà sempre e sempre vi aiuterà ad asciugare qualche lacrima attorno a voi. Questo sarà il balsamo più efficace per la vostra ferita: alleviare il dolore degli altri, accendere e sostenere il sogno di altri giovani come lui.
E a voi, giovani amici di Simone, permetteteci di dirvi, con un briciolo di coraggio in più: “Fateci vedere che quella frase non descrive un vostro vago sogno consolatorio, ma che voi ci credete davvero che Simone è con noi. Ma fatecelo vedere sempre con fatti di vita, mai con giochi di morte. E date una mano a Simone per realizzare con il vostro cuore e le vostre mani i suoi sogni più belli e più veri”.
Riccione, chiesa di s. Lorenzo, 25 ottobre 2017
+ Francesco Lambiasi