Omelia in occasione dell’ordinazione presbiterale di don Davide Arcangeli, don Stefano Bellavista, don Alessandro Caprini e dell’ordinazione diaconale di fr. Juri Leoni, Giuseppe Tosi, Gioacchino Vaccarini
Rimini – Basilica Cattedrale, 24 aprile 2010
Amare ed essere amati: nell’abisso insondabile del nostro cuore inquieto, così sbattuto tra slanci e rimpianti, così lacerato da fughe, abbandoni e smarrimenti, si agita incontenibile l’istinto a by-passare le barricate del proprio io triste e ripiegato, e ad entrare in comunicazione bidirezionale con l’altro, il “tu”. Conoscersi, riconoscersi, appartenersi reciprocamente, abitare a vicenda nel cuore gli uni degli altri rimane il sogno più struggente, il bisogno più pressante, la nostalgia più acuta e inappagabile di sposi, genitori, figli, amici. Ma alla fame di dare e di ricevere amore, la risposta c’è, ed è sbilanciata, traboccante: ha il volto bello e il cuore buono del Pastore vero, buono e bello.
“Io sono il buon Pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre”. Noi e Gesù, Gesù e Dio: un unico mistero ci comprende; una identica appartenenza ci abbraccia; lo stesso Spirito d’amore ci stringe tenacemente, ci penetra e teneramente ci avvolge. E il prodigio, l’inimmaginabile prodigio di quella comunione per la quale siamo stati fatti, si compie a dismisura: come il Figlio e il Padre, anche noi nel loro comune Spirito diventiamo finalmente una cosa sola.
1. “Io sono il buon pastore”. Questo identikit che Gesù fa di se stesso, rafforzato dalla parabola della pecorella smarrita e ritrovata del vangelo di Luca, colpì talmente i primi cristiani da spingerli a superare il tabù che vietava di riprodurre Dio in immagini. Infatti la prima raffigurazione di Gesù, dipinta sulle pareti delle catacombe romane, è quella del “buon pastore”.
Il breve frammento evangelico appena proclamato è solo la conclusione del lungo discorso di Gesù, riportato nel vangelo di Giovanni. La simbologia del bel pastore domina il capitolo decimo di quel vangelo e si sviluppa in tre riprese. Nella prima parte l’immagine del pastore buono viene contrapposta a tre losche figure, del tutto inaffidabili per il gregge: quelle del ladro, del bandito, del mercenario. In un secondo momento (vv. 14-18) Gesù pennella i tratti del profilo premuroso del pastore autentico: è guida e compagno delle sue pecore, sotto il sole implacabile, contro il vento sferzante, nella notte flagellata dal freddo. Ma a fare la differenza è il fatto inaudito: la dedizione del pastore Gesù fino a sacrificare la vita per salvare anche una sola pecorella. Il falso pastore pensa a se stesso e sfrutta le pecore; il pastore vero pensa alle pecore e offre se stesso. Nella terza parte, quella proclamata in questa liturgia (vv. 27-30) Gesù sembra volgere di nuovo il suo sguardo sul gregge. Le “sue” pecore sono coloro che “ascoltano la sua voce e lo seguono”.
In sintesi cinque tratti scolpiscono il volto del bel Pastore nei confronti del gregge, e cinque parole schizzano il ritratto delle pecore docili e fedeli. A differenza dei falsi pastori, il pastore buono “conosce” le sue pecore, le “chiama” per nome, una ad una; “cammina” alla testa del suo gregge e lo difende dai ladri; garantisce la vita delle pecore al punto da “offrire la sua stessa vita” per la loro incolumità; “unifica” il gregge e costruisce il grande ovile dove tutte le pecore possono essere raccolte e difese; conduce dentro quelle che stanno fuori, per “dare loro la vita eterna”. D’altro canto le sue pecore “riconoscono” la voce del pastore, lo “ascoltano”, lo “seguono”, “diventano” un solo gregge, “stanno” sicure e serene nella stretta tenera e forte tra la mano del Padre e quella del Figlio.
2. Pascete il gregge di Dio che vi è affidato”: esorta, Pietro, i pastori-presbiteri delle Chiese del suo tempo, “quale anziano (“presbitero”) come loro” (cfr. 1Pt 5,1ss). Questa è la funzione assegnata ai pastori della Chiesa: “ri-presentare”, ossia rendere presente l’unico pastore. Niente di più, niente di meno. La formula solenne della dogmatica cristiana e cattolica asserisce che il sacerdote “agisce in persona di Cristo Capo e Pastore”, con il dono–compito di insegnare, santificare, governare la comunità dei credenti. Papa Benedetto ha riproposto questa verità nella sua nettezza qualche giorno fa, spiegandone il senso in modo molto diretto.
Nell’uso più comune, esplicita il Papa, “rappresentare” indica il fatto di “ricevere una delega da una persona per essere presente al suo posto, perché colui che è rappresentato è assente dall’azione concreta”. E prosegue: “Il sacerdote rappresenta il Signore allo stesso modo? La risposta è no, perché nella Chiesa Cristo non è mai assente; la Chiesa è il suo corpo vivo e il Capo della Chiesa è lui, presente e operante in essa” (Udienza gen., 14 aprile 2010).
Il presbiterato non rende dei poveri cristiani successori in serie o legali sostituti dell’unico sommo Sacerdote, per il semplice fatto che non c’è un vuoto di Cristo da colmare. Infatti Cristo Pastore non si è reso assente o latitante con la sua risurrezione. E la sua ascensione al cielo non ha inaugurato una lunga, interminabile sede vacante. Cristo continua a mantenere la promessa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Il Signore Gesù non è un presente-assente, ma è l’unico che, come Dio, può coniugare il verbo essere sempre e solo alla prima persona singolare del tempo presente: “IO-SONO”. Pertanto coloro che lo rappresentano, non occupano il suo posto rimasto sgombro, ma lo ri-presentano, lo rendono presente facendosi trasparenti al suo mistero e alla sua azione redentrice. In poche parole, l’ordinazione rende i diaconi, i presbiteri e i vescovi, nel loro proprio grado, rappresentanti insostituibili, ma non sostitutivi, di Cristo Capo, Pastore e Servo.
Questa trasparenza dei pastori all’unico Pastore perennemente presente implica – e ciò vale per il Papa come per i semplici sacerdoti – una sorta di “carta d’identità”, da cui emerge il seguente profilo: i pastori sono i cristiani che consegnano lealmente e lietamente la propria vita al supremo Pastore, unicamente perché egli se ne serva, e non per un progetto di autorealizzazione. I chiamati infatti sono coloro per i quali “l’Agnello sarà il loro pastore” (II lett.) e lo seguono dovunque vada, perché in loro la gioia di essersi lasciati chiamare per nome ha azzerato la smania di farsi un nome. L’unica ambizione legittima, l’unica gratificazione consentita per un sacerdote è quella di annullarsi e di scomparire totalmente dietro il suo unico, dolcissimo Signore, al punto da immedesimarsi completamente in lui, al punto da poter dire: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”. Scriveva H. Urs von Balthasar: “Quanto più il sacerdote serve, tanto più è trasparente. Quanto più si attribuisce titoli di dignità, tanto più opaco egli diviene”. Nel nostro mondo occidentale, che sprofonda nelle sabbie mobili del narcisismo dilagante, solo uomini che hanno deciso per una follia d’amore di perdere la testa dietro a Cristo e di perdere la vita per il vangelo, potranno aiutare molti a ritrovare la propria vita e la propria testa. Di qui un primo augurio, innanzitutto a voi ordinandi presbiteri: rendetevi trasparenti a Cristo pastore, fino a lasciarcelo scorgere nella trama dei vostri gesti, fino a farcelo intravedere nella filigrana delle vostre parole, fino a lasciarcelo percepire nelle pulsazioni del vostro cuore. E voi, diaconi: immedesimatevi in Cristo servo, fino a farci intercettare nel sostegno e nella carezza delle vostre mani la forza e la dolcezza delle mani di Cristo, il primo vero diacono.
Dal tema della trasparenza a Cristo Pastore e Servo, vorrei ricavare un secondo augurio, facendo un rapido link a un passo dell’AT. Nel libro dell’Esodo, quando si parla dell’ordinazione sacerdotale di Aronne e dei suoi figli, Dio ordina a Mosè: “Tu li ungerai, li consacrerai e darai loro l’investitura”, alla lettera “tu riempirai le loro mani” (28,41), alludendo al gesto simbolico di mettere per la prima volta tra le mani del sacerdote le porzioni della vittima che deve offrire in sacrificio. In realtà nel sacerdozio del NT l’unica vittima è Cristo, l’agnello immolato per la nostra salvezza. Certo, come avverrà tra poco per voi, tra le mani del presbitero, come pure del diacono, vengono posti i vasi sacri con le offerte per il divino sacrificio, ma in verità le mani dei consacrati sono fragili come quelle di tutti, eppure diventano, per pura grazia e non per nostro merito, conche di argilla piene di Dio. E’ vero, purtroppo è vero: le mani di un prete possono perfino sporcarsi di gesti squallidi e tenebrosi, per cui è giusto che egli paghi ed espii, ma non possiamo né vogliamo rinunciare alla grazia che quelle mani ci offrono mentre benedicono, consacrano, assolvono, mentre sostengono, orientano, difendono, accompagnano.
“O meraviglia che si possa così donare ciò che per se stessi non si possiede. O dolce miracolo delle nostre mani vuote!”, sospirava il Curato di campagna.
Da quelle mani passa l’amore di Cristo che salva il mondo.
Non possiamo chiudere questi pensieri senza fissare il nostro sguardo rapito e commosso su Maria, chiamata dall’angelo Gabriele “Amata da Dio”. E’ lei l’Amata per eccellenza, la prescelta, la prediletta, la Madre tutta bella, che con la grazia dello Spirito Santo ha formato il cuore umanissimo del bel Pastore. Accenda lei e tenga sempre acceso nel vostro cuore, carissimi presbiteri e diaconi, i sentimenti che furono in Cristo suo Figlio e faccia di noi, poveri servi del Pastore nostro Servo, degli insonni ricercatori della Bellezza divina, amanti dell’Amore increato, desiderosi di non perdere le vie dell’Amore. E giunti un giorno alla meta, quando apparirà il Pastore supremo, ci doni la corona della gloria che non appassisce e ci presenti a suo Figlio, il frutto benedetto del suo seno, Gesù, l’Amore del nostro cuore, la Bellezza dei nostri occhi, l’Incanto dell’universo.
O clemente, o pia, o dolce Vergine Maria!