Omelia per la S. Messa di apertura del Meeting 2008
Nella sua magistrale Introduzione al cristianesimo, consegnata alle stampe esattamente quaranta anni fa, nell’estate del 1968, una delle più inquiete e roventi del secolo scorso, Joseph Ratzinger scriveva:
“L’uomo non raggiunge veramente se stesso tramite ciò che fa, bensì tramite ciò che riceve. Egli è tenuto ad attendere il dono dell’amore, e non può accogliere l’amore che sotto forma di gratuita elargizione. Non si può ‘far l’amore’ da soli, senza l’altro; bisogna invece attenderselo, farselo dare. E non si può divenire integralmente uomini fuorché venendo amati, lasciandosi amare”.
Le parole del giovane teologo di Tubinga non solo ci aiutano ad incrociare il messaggio del santo evangelo appena proclamato con il tema suggestivo e quanto mai intrigante di questo Meeting. Il passo citato ci dà anche modo di vedere come il collegamento tra la parola del Signore, che conferisce a Simone bar Jonas una nuova identità – “Tu sei Pietro” – e il titolo del Meeting – “O protagonisti o nessuno” – sia un collegamento fondato e legittimo, oltre che fecondo di luce per il cammino dei prossimi giorni, seppure, è ovvio, abbia bisogno di qualche passaggio che ora vorrei provare ad esplicitare.
1. Ripartiamo dall’evento di Cesarea di Filippo: uno squarcio di luce piovuta dall’alto, un momento breve come un sibilo, ma gremito di vita eterna. Alla domanda imbarazzante, posta a sorpresa dal Maestro – “Ma voi chi dite che io sia?” – Pietro rispose senza esitare: “Tu sei il Cristo, Il Figlio del Dio vivente”. E fu come se la storia dei Dodici, la storia di Israele, su su fino ai profeti lontani, fino al padre Abramo, si trovasse raccolta in quelle parole troppo grandi per venire dal figlio di Giona. Di più: quel giorno fu come se il cielo si aprisse una terza volta, dopo il Giordano e il Tabor, ad illuminare non solo Lui, Gesù di Nazaret, finalmente riconosciuto in terra come il Messia, il Figlio di Dio in carne ed ossa. Ma, oltre che su di lui, il cielo stavolta si squarciava anche su Simone, che riceveva una nuova identità: non era più semplicemente un anonimo pescatore, condannato a raschiare il lago di Tiberiade per sottrargli qualche pesce sempre troppo scarso per le tante bocche da sfamare. No, Simone veniva accreditato né più né meno come la Roccia della Chiesa. Da quella risposta, non prodotta da carne e sangue, ma suggerita direttamente dal Padre che sta nei cieli, il figlio di Giona veniva generato come un uomo nuovo e si vedeva automaticamente registrato nell’anagrafe del regno dei cieli con una identità impensabile: “Io ti dico: Tu sei Pietro…”. Simone assumeva così il nome di “pietra”, con la missione vertiginosa di reggere sulle sue spalle di povero peccatore – reso indefettibilmente pescatore di uomini – la nuova casa dei credenti, la santa Chiesa di Cristo.
“Ti chiamerai Kefas-Pietra”, era stata la promessa, fin dal primo incontro con quel rabbi misterioso e seducente, piovuto da Nazaret, una oscura borgata da cui, secondo Natanaele, non poteva venire nulla di buono. Ora, nei pressi di Cesarea, è la stessa Parola fatta carne che dice il nuovo nome di Simone e gli dona una nuova esistenza. E’ sempre Lui, che dice il mio nome: come io da Lui sono chiamato, quello è il mio nome, e quello io sono e non un altro. La mia identità è dono che viene dal Dio-Amore, che mi chiama perché mi ama. Come appunto scriveva Ratzinger quaranta anni fa: l’uomo trova se stesso lasciandosi amare e chiamare dal Dio-Amore, e così diventa integralmente umano, potremmo dire autentico “protagonista”.
2. Questa certezza fa parte del DNA del cristianesimo, ma è stata messa in questione dalla modernità, che ha collocato l’uomo al centro dell’universo, affidando a lui e solo a lui la responsabilità del destino suo personale e quello dell’intera umanità. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx aveva dichiarato che l’uomo è indipendente quando non vive per grazia di un altro, quando la sua vita è la sua propria creazione, quando, in ultima analisi, si sbarazza di Dio. Lo stesso Marx aveva indicato l’emblema dell’uomo moderno, finalmente liberato dall’alienazione religiosa, in Prometeo, l’eroe della mitologia greca che dà la scalata all’Olimpo per rubare il fuoco agli dei e portarlo sulla terra, aprendo così la marcia trionfale dell’umanità verso il sol dell’avvenire. E’ per questo che Prometeo, sempre secondo Marx, meritava di essere collocato in cima al calendario dei… “santi atei”!
La certezza tutta cristiana che non sono io il creatore del mio io – insomma che io non mi posso autogenerare né autopartorire, ma sono stato creato e poi rigenerato da un Dio che è Padre, e dunque vuole la mia più piena realizzazione, non la mia distruzione – viene negata pure dalla post-modernità, che si presenta a dominante narcisista. Ricordiamo anche qui un altro mito della letteratura greca: Narciso è un giovane bellissimo, innamorato della sua immagine fino al punto da non comunicare con altri se non con la sua eco. Narciso si può infatti tutt’al più autoclonare; non può né autoconcepirsi né, da sé solo, generare. Un giorno, vagando tra i boschi, egli giunge alla riva di un laghetto ghiacciato: comincia allora a rimirarsi, e nel desiderio di abbracciare la sua immagine, si sporge fino a sprofondare nello specchio di acqua gelata, e così muore. Narciso non è un uomo cattivo, è un giovane triste: si porta in cuore il sogno di essere felice, ma è vittima di una terribile illusione: quella di potersi procurare la felicità da solo. Narciso non è ateo, è idolatra: il suo dio è il suo Io; egli adora se stesso; la sua è una autolatria, una vera Io-latria. Ma l’amore morboso per il proprio io è droga che porta diritto alla fase terminale. Non per nulla – sempre secondo il mito – narciso è il nome del fiore soporifero che intreccia le corone delle divinità dei morti, Orfeo e Persefone, e il termine “narcosi” è imparentato esso pure con narciso…
La cultura moderna e post-moderna ci confermano, in negativo, che il vero protagonismo non è quello dell’uomo che si vuole affermare contro Dio e sopra gli altri, o si illude di realizzarsi senza Dio e senza gli altri. Solo Cristo ci salva dai deliri allucinanti di onnipotenza prometeica e dai miraggi ossessivi e disperanti del narcisismo. Kierkegaard ha scritto:
“Si parla tanto di vite sprecate. Ma sprecata è soltanto la vita di quell’uomo che così la lasciava passare, ingannato dai piaceri della vita e dalle sue preoccupazioni, in modo che non diventò mai, con una decisione eterna, consapevole di se stesso come spirito, come ‘io’. Oppure – ed è lo stesso – perché mai si rese conto, perché non ebbe mai, nel senso più profondo, l’impressione che esiste un Dio e che lui, proprio lui, il suo ‘io’ sta davanti a questo Dio… Mi sembra di poter piangere per una eternità, al pensiero che esista questa miseria!”.
3. E’ vero: “o protagonisti o nessuno”. Ma “protagonisti” – ha scritto don Giussani – “non vuol dire avere la genialità o la spiritualità di alcuni, ma avere il proprio volto, che è, in tutta la storia e l’eternità, unico e irripetibile”. Questo è il paradosso della Chiesa di Gesù Cristo, fondata su Pietro: tutti fondamentalmente uguali perché tutti ugualmente fratelli, ma nessuno più eccellente o eminente di un altro, perché uno solo è il Maestro e Signore. Pretendere statuti privilegiati significherebbe fare velo alla sola vera superiorità, la sua, la quale deve sempre brillare unica e intatta. Uguaglianza, quindi, ma non omologazione, uniformità e conformismo: tutti somiglianti a Cristo, ma ognuno con il suo volto individuale, inconfondibile, insostituibile. Realizzando in ogni battezzato l’immagine dell’unico modello, quello di Cristo, lo Spirito Santo esalta l’originalità di ognuno: “a ciascuno è data un manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune” (1Cor 12,7).
Così “accade” la santità, uno spettacolo variopinto, policromo, polifonico. Citando lo scrittore francese Jean Guitton, nell’ultima udienza generale (20.8.’08) il Papa ha detto: i santi sono “come i colori dello spettro in rapporto alla luce”, perché “con tonalità e accentuazioni proprie ognuno di loro riflette la luce della santità di Dio”. E’ vero: Pietro, Paolo, Giovanni riverberano qualche tratto del Santo Volto, ma ognuno in modo singolare, originale e irripetibile. Nessun santo, nessun testimone della fede è rimpiazzabile con un altro: Giovanni Paolo I non si può scambiare con Giovanni Paolo II; Teresa di Calcutta non è sostituibile con Chiara Lubich; don Giussani con don Benzi.
Protagonismo nel senso evangelico e santità cristiana sono dunque intercambiabili: “aderendo a Cristo, pietra viva”, anche noi veniamo impiegati come “pietre vive” per la costruzione della santa Chiesa di Cristo. A cominciare dalla prima pietra, quella di Simone figlio di Giona, la pietra di fondamento che si lascia mettere sotto a tutto, laggiù in basso, per reggere tutta la cattedrale, e non pretende di andare a finire in cima ad una cupola che tutti guardano e ne restano abbagliati. Ciò che conta è comunque trovarsi là dove si viene messi dal divino Architetto, ogni pietra al suo posto: questo è il volto ultimo del protagonismo cristiano!
Un giorno un discepolo si rivolse ad abba Antonio e gli chiese: Abba, che cosa ti aspetti che ti chieda il Signore quando ti presenterai davanti a lui? Non mi chiederà, rispose abba Antonio, perché non sono stato Abramo o Pietro, ma perché non sono stato Antonio…
Lo Spirito del Risorto ci aiuti a diventare come Maria, “la faccia che a Cristo più si somiglia” (Dante) e che Maria ci aiuti a non dimenticare mai che quanto più un cristiano diventa fedelmente conforme al Figlio di Dio, tanto più diventa autenticamente conforme al suo vero io.
Rimini, 24 agosto 2008
+ Francesco Lambiasi