Prima che sia troppo tardi

Discorso del Vescovo alle Autorità, in occasione della festa del Patrono

      La festività del patrono della Città e della Diocesi cade quest’anno esattamente nel cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II, un evento che le più alte personalità religiose e politiche del tempo e di oggi hanno considerato e continuano a valutare come un evento epocale, tra i più importanti e significativi dello scorso Novecento. Vorrei iniziare questa mia riflessione estraendo dallo scrigno dei testi conciliari una ‘perla’ tra le più preziose: “Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in serio pericolo la propria salvezza eterna” (GS 43). A questa citazione vorrei accostarne un’altra, che riscontro sul versante laico: “Nella vita religiosa della comunità cristiana si ritrova ancora intatto ciò che altrove è andato perduto: capacità espressive e recettive sufficientemente differenziate per afferrare gli aspetti di una ‘vita sbagliata’, soprattutto dopo che si è interrotta la tradizione del movimento operaio. Nelle società turbo-capitaliste, che premiano chi mira al successo individuale, vediamo altrimenti atrofizzarsi ogni sensibilità terapeutica per le patologie sociali, per il fallimento dei progetti esistenziali, per le lacerazioni dei contesti di vita” (J. Habermas). E’ con questo spirito di sincero, cordiale interessamento alle sorti della nostra Città, che mi accosto a voi, Distinte Autorità, per riprendere un dialogo che ci vede tutti preoccupati per quanto sta avvenendo e impegnati per non far mancare l’apporto della nostra specifica competenza alla soluzione di una crisi che continua e continuerà ancora ad affliggere in modo drammatico poveri, malati, immigrati, famiglie, giovani. Per parte nostra, siamo consapevoli che non possiamo cantare il gregoriano in chiesa e poi non seminare semi di speranza nei solchi della vita, sulle macerie della storia.

Vorrei ora soffermarmi in particolare su tre problemi, strettamente intrecciati e interconnessi: la crisi, i giovani, il nuovo assetto istituzionale.

 

1. L’infarto, che ha aggredito il sistema finanziario globale nel 2008, colpisce in modo molto grave anche la nostra città e il nostro territorio, ponendoci di fronte a problemi drammatici, che impongono un supplemento di riflessione e di impegno, se vogliamo produrre risposte all’altezza dell’enorme sfida in atto.

La crisi economica, politica e sociale è molto seria. La si avverte anche nelle parrocchie, in modo acutissimo. La gente, anche quando tace, è molto preoccupata. La crisi morde la situazione delle famiglie, che con dignità tirano la cinghia: tariffe, tasse, prezzi, tutto è aumentato. Si aggiunga la precarietà o anche la perdita del lavoro in non pochi casi. Il turismo, la nostra valvola di sicurezza, non tira. Molti alberghi hanno lavorato con prezzi stracciati, col rischio di cattivo servizio, di lavoro nero, di evasione fiscale. Mare, spiaggia, lungomare, tutto appare ormai superato da altre località in Italia e all’estero.

La situazione della povertà a Rimini, dal punto di vista della Caritas Diocesana, non fa altro che peggiorare. In soli 9 mesi sono state incontrate 2.138 persone, mentre nell’intero periodo del 2009, quando da noi la crisi non era ancora esplosa, ne erano state incontrate 1.953. Sono 33.263 i pasti serviti in mensa nei primi 9 mesi dei quest’anno, a fronte dei 30.752 del 2011. In forte crescita la presenza degli italiani, passati dal 26,3% del 2011 al 29% nel periodo gennaio-settembre 2012. La percentuale più elevata delle persone in stato di disagio economico è rappresentata dagli immigrati: sono il 69,7%, prevalgono rumeni (22%), marocchini (10%), ucraini (7%). Tra coloro che si trovano in povertà si ha un’alta percentuale di persone sole (62%): celibi, separati, divorziati. I problemi principali delle persone che si rivolgono alla Caritas sono il lavoro (1.819 persone) e la mancanza di casa (1.439), a fronte di ben 15mila case sfitte nella città di Rimini.

Come sappiamo, la prima cosa da fare di fronte a una malattia, è diagnosticare bene la tipologia, per evitare di curare un tumore con l’aspirina. Ha scritto l’economista Kennet Rogoff: “Immaginate di avere una polmonite e di pensare che sia soltanto una brutta influenza. Potreste facilmente prendere la medicina sbagliata e pensare certamente di tornare alla vostra vita normale molto più velocemente di quanto sia realmente possibile”.

Come ormai sottolineato da autorevoli commentatori ed esperti, prima di essere il prodotto di cause tecniche economico-finanziarie, questa “seconda grande contrazione” – dopo quella del 1929 – mette in realtà a nudo i limiti di un sistema e un modello di sviluppo affermatosi negli ultimi 30 anni, basato su una visione culturale profondamente materialista e individualista, in cui la libertà dell’uomo è stata declinata non come responsabilità e ricerca di senso, ma come volontà di potenza, protesa ad espandere se stessa e le proprie capacità di godimento, insofferente a qualsiasi limite, impermeabile a qualsiasi indicazione trascendente, dove l’esperienza si è ridotta ad esperimento e i valori diventano punti di vista sempre negoziabili e sacrificabili all’interesse immediato.

Gli effetti sociali di questa situazione sono la frammentarietà, l’insicurezza, la rassegnazione, l’incapacità di fare squadra, il “si salvi chi può”. Da tutto questo è illusorio pensare di poter uscire solo con qualche accorgimento tecnico, con una migliore razionalizzazione di costi e servizi, col taglio degli sprechi e con maggiore efficienza amministrativa, politica ed economica. Certamente tali provvedimenti sono necessari, ma solo se si prende atto della necessità di ricercare ed elaborare una nuova idea di sviluppo, ritrovando il respiro di sintesi grandi in una visione antropologica che rimetta al centro la persona umana, considerata non più come monade isolata e autoreferenziale, ma come essere dischiuso a relazioni profonde con gli altri, aperto alla trascendenza, e perciò capace di una libertà che integra nel proprio orizzonte la questione sociale e la questione del senso, per costruire una democrazia della responsabilità e della partecipazione.

Siamo quindi tutti chiamati a metterci in gioco in questa formidabile sfida, quella di dare vita ad un modello di sviluppo generativo, in cui ripensare il welfare al di là della dicotomia pubblico-privato nella prospettiva sussidiaria del bene comune; riconoscere la centralità dell’impresa con la valorizzazione del lavoro, della educazione, della ricerca, nel superamento della cultura della rendita; il riconoscere sotto ogni profilo la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, come soggetto di crescita sociale, economica ed umana; una visione poliarchica e sussidiaria delle forme istituzionali e dei rapporti sociali.

Per fare questo è necessario superare la cultura della contrapposizione e del sospetto reciproco, per passare dalla logica della diffidenza a quella della confidenza, e seguire in modo convinto e determinato la più promettente – anche se più difficile – via dell’alleanza. Le istituzioni politiche, l’economia nelle sue articolazioni, la società civile organizzata devono pensarsi partners in una grande alleanza per il perseguimento del bene comune, cercando di superare contrapposizioni preconcette e rendite di posizione ormai non più sostenibili. La grande crisi che stiamo vivendo ci rivela, a volte rudemente, che non potremo più tornare “quelli di prima”, e che il cambio di mentalità, la conversione da attuare, non solo è necessaria, ma addirittura urgente. Fare alleanza è un’arte inizialmente faticosa, richiede il coraggio del confronto, la convinzione di non essere gli unici ad avere ragione; necessita di fiducia e di coraggio, impone l’abbandono dell’autoreferenzialità (personale ed istituzionale), implica la capacità di rispettare le autonomie e i ruoli propri di ogni interlocutore, senza derogare alle proprie funzioni ed attribuzioni.

Ecco perché auspichiamo che tutti coloro che svolgono ruoli istituzionali e di responsabilità a qualsiasi livello, si gettino alle spalle pratiche inveterate di non dialogo, di ricerca estrema della visibilità anche a scapito del bene comune, di tendenza al litigio senza costrutto, di approssimazione e faziosità nei giudizi, di rincorsa al facile consenso, di preoccupazione compulsiva della propria rieleggibilità, di indisponibilità ad un ascolto effettivo delle posizioni e delle istanze altrui. Non è una questione di bon ton e di fair play istituzionale, ma un passaggio imprescindibile per essere in grado di giocare la partita seriamente e vincere la terribile sfida a cui siamo chiamati.

In questo quadro complesso e drammatico, non vanno sottaciute le cose buone realizzate o potenziali. Penso in particolare al felice esito della vicenda relativa alla ricapitalizzazione e al mantenimento dell’autonomia locale di Banca Carim, finalmente restituita al nostro territorio dopo la recente conclusione del commissariamento e la nomina del nuovo CdA, cui auguriamo di operare al meglio. In questa vicenda, nella quale riconosciamo ed apprezziamo il ruolo e il lavoro svolto dalla Fondazione Carim, si è potuto giungere a capo della questione, grazie al corale e compatto sostegno fornito dalle istituzioni politiche, da parte del mondo imprenditoriale, dai piccoli azionisti, dimostrando che solo se si fa rete e ci si muove compatti, si è in grado di raggiungere risultati positivi e concreti.

Penso ancora al lavoro ed alle opportunità presenti nel Piano Strategico, con il quale la collettività riminese si è dotata di un formidabile strumento per ripensarsi e darsi obiettivi di lungo respiro, e che deve essere sostenuto e valorizzato con più convinta determinazione. In questa occasione, in cui più volte ne abbiamo parlato, mi sento in dovere di riportare la voce dei laici cattolici, che dopo essersi impegnati nella fase di elaborazione, ora attendono – insieme a tutti coloro che hanno contribuito a progettarlo – che non si aspetti altro tempo perché il Piano venga messo in cantiere e si passi decisamente a concretarne la realizzazione, come anche recentemente ripetuto dall’Amministrazione Comunale.

2. Provo ora a declinare qualche pensiero sui giovani. Molti di loro sono in attesa di trovare lavoro o di uscire dalla precarietà, e sono ormai più che adulti. Come “farsi una famiglia” in queste condizioni? Altri giovani sono disorientati per l’inutilità – a livello di possibile impiego lavorativo – dei loro studi e dei titoli acquisiti. Sempre di più chiedono a noi, investiti in autorità, di dimostrare un’autorevolezza, che è figlia della credibilità. Un fattore determinante per l’acquisizione di questa è la percezione che chi ha potere sia in grado di capire le situazioni concrete, di mettersi negli stessi panni  di coloro che si è chiamati a “servire”. Altro elemento fondante della credibilità è la sobrietà, soprattutto nel maneggiare il denaro pubblico, frutto di sacrifici dei cittadini onesti, con modalità trasparenti, in segno di rispetto verso la ‘cosa pubblica’ che si è chiamati a servire, non a servirsene. Altra non trascurabile forma di sobrietà è quella nell’esprimersi, sia con le parole che con i fatti, dato che proprio questi ultimi parlano un linguaggio immediato e comprensibile da tutti. Non possiamo tacere allora di iniziative e comportamenti che sviliscono lo stare insieme, riducendolo da sano divertimento a trasgressione selvaggia, in cui ogni eccesso è lecito e consentito, e va in vacanza anche il buon senso del limite.

I dati statistici al riguardo sono impressionanti. In Italia sono oltre 1milione e 300mila, tra ragazzi e ragazze, coloro che bevono in maniera sporadica, occasionale o quotidiana secondo modalità considerate a rischio per la salute. Lo afferma l’Istituto Superiore della Sanità. Quando poi “ci scappa il morto”, per qualche giorno ne parlano giornali e telegiornali. E le richieste sono sempre quelle: più ordine pubblico, più controlli di Polizia, vietare gli alcoolici dopo mezzanotte, chiudere i bar o i market che vendono ai minori… Tutte cose giuste da fare e da continuare a fare, ma la domanda vera è: chi sono questi giovani che sballano e perché? Gli studi dell’ISS dimostrano che, tra gli 11 e i 25 anni, partecipare a concerti ed eventi sportivi, ma anche andare in discoteca aumenta la probabilità di consumi a rischio. Dall’indagine è emerso che anche incontrarsi sui social network è un ulteriore fattore che incrementa la probabilità di adottare un consumo alcoolico a rischio, anche da parte di giovanissimi. Unica eccezione – è sempre l’ISS a documentarlo – sono i luoghi di aggregazione cattolica in cui, al contrario, la probabilità di non essere consumatori appare massima. Un’inchiesta che ci dice che i ragazzi bevono quando sono insieme. E’ come se scattasse una molla di emulazione. Se vuoi stare nel gruppo, le regole sono queste. Devi dimostrare di essere alla pari, di essere grande… Il gruppo aiuta a superare ogni inibizione, ogni regola: di qui, l’eccesso. Il vuoto di significati che caratterizza questo tempo si riempie di alcool, di pasticche, di violenza, di sesso, di sbornia, di rumore. Di fronte a questo dramma non basta proibire, occorre costruire. Non basta reprimere – diceva uno che se ne intendeva, Don Bosco – occorre prevenire. Insomma occorre che noi adulti ci rimettiamo a riprendere il rischioso, ma sempre necessario e possibile – ‘mestiere’ educativo. E’ quello che le parrocchie, le scuole paritarie di matrice cattolica, i gruppi giovanili cristiani – formativi, culturali, ricreativi, e di volontariato – sono impegnati a fare. Ma da soli non possiamo illuderci di arrivare a tutto e a tutti.

3. Non posso chiudere questi pensieri senza accennare ai cambiamenti istituzionali in atto, in particolare, il prossimo accorpamento delle province della Romagna. Il Vescovo, pastore della comunità, non può non richiamare l’importanza che le istituzioni stesse rivestono per un ordinato svolgimento delle attività umane, e auspicare che il mutamento non si traduca in impoverimento di servizi per le persone, che possano sempre contare, invece, su un tessuto di risposte efficaci e prossime. La sanità, la sicurezza, la tutela del territorio sono ricchezza per ogni cittadino di questa terra, e vanno salvaguardati. Senza scadere in un provincialismo, inabile a superare gli orizzonti più ristretti e gli egoismi territoriali, ci auguriamo che il cambiamento istituzionale sia capace di salvaguardare le risorse e le infrastrutture che nel servizio  hanno dato prova di eccellenza e che potrebbero essere meglio valorizzate, nella prospettiva di un bene comune dai confini più ampi per una organizzazione che sappia porre sempre al centro l’uomo.

Tra poco, in comunione con Benedetto XVI e con la Chiesa universale, anche la nostra Chiesa diocesana aprirà l’anno della fede. Come credenti e come cittadini, non possiamo ridurlo a qualche sporadica pratica religiosa in più, né ad un ripasso veloce del catechismo. Noi siamo impegnati a mostrare che la fede è tale se parla alla nostra vita e se la nostra vita parla di fede. Certo, non possiamo iniziare questo Anno senza un sincero e doveroso atto penitenziale, poiché come cittadini credenti non sempre abbiamo ottemperato al richiamo del Concilio, su riportato, riguardo all’osservanza dei nostri “impegni temporali”. E perciò ne chiediamo perdono alle persone e alle istituzioni della Città, con la promessa della giusta riparazione e della irrinunciabile conversione per il cammino futuro.

Nel contempo rinnoviamo la disponibilità ad attivare quelle sinergie virtuose – come, ad esempio, nel periodo dell’emergenza-neve – per contribuire al bene comune della nostra amata Città. Insieme, con l’aiuto di Dio e di tutte le persone di buona volontà, ce la potremo fare. L’importante è decidere e cominciare. Prima che sia troppo tardi.

Rimini, 14 ottobre 2012

+ Francesco Lambiasi