Omelia per l’ordinazione di Andrea Tommassoni sul vangelo di Luca (12,35-44)
Non è vero che l’uomo è ciò che mangia. E’ vero piuttosto che l’uomo è ciò che attende. Se attende la morte, rimane nella morte e contagia morte. Se attende Cristo, è già passato dalla morte alla vita e genera vita. Ce lo ricorda il vangelo appena proclamato con una tra le parabole più toccanti e trasparenti: quella dei servi pronti per il ritorno del padrone. In filigrana vi si scorge il volto di Dio-servo e di noi tutti servi di Dio. Ma vi si intravede anche il tuo volto, carissimo Andrea, che stai per diventare pastore e vero “servo dei servi di Dio”.
1. La prima domanda che ci dobbiamo porre quando leggiamo una parabola evangelica non è tanto: “cosa dobbiamo fare?”, ma piuttosto: “quale immagine di Dio vi si specchia?”. Il protagonista della parabola evangelica è chiamato un nome assai sgradevole: ‘padrone’. E ‘padrone’ lo è effettivamente, ma non è un boss implacabile, venale e fiscale. Piuttosto è un padrone-servo che si fida e si affida ai suoi servi. E’ un padrone che veste l’abito nuziale: uno sposo innamorato e dolce che, lascia casa e affari, e convola a giuste nozze.
Ma entriamo più addentro al messaggio della parabola, una ‘storia’ scandita in tre tempi.
Il primo è il tempo del mandato. Lo sposo che parte per il viaggio di nozze rappresenta Dio che crea l’universo e poi si ritira, non perché tagli la corda e si assenti, ma perché si rende invisibile. Questa ‘invisibilità’ di Dio a noi umani pesa molto, perché ci appare come una ‘assenza’ aspra e acerba. “Dio, Dio, Dio – gridava l’Innominato – se lo sentissi, se lo vedessi, se lo toccassi”. Anche noi lo vorremmo udire, vedere, palpare. Eppure è proprio questa sua insopportabile ‘assenza’ la garanzia della nostra libertà. Se fosse qui, tra di noi – visibile inevitabile e incombente – Dio, al più, si farebbe obbedire, ma non si farebbe certamente amare. E ciò metterebbe a rischio in noi la certezza della sua misericordiosa presenza.
Il secondo è il tempo dell’attesa. Verso dove va il nostro lungo migrare di giorno in giorno? Non è diretto verso un futuro fumoso e incerto, ma verso l’abbraccio dell’incontro. Attendere è verbo di buona marca cristiana. Attendere si deve. Quando cala la nebbia, e non si riesce a vedere la via neanche a un palmo di naso. Attendere si deve anche quando arriva l’ora nona, e si fa buio su tutto il palmo di terra da noi abitato. Attendere si deve quando si fa notte all’intorno e nell’intimo, e si rimane paralizzati da una gelida, invincibile paura. Attendere si deve, ma si può? Sì, se non si spegne la piccola fiamma tremolante della lampada della fede. Sì, se il verbo attendere si traduce nel sinonimo ‘resistere’. E il cuore continua a bruciare d’amore. In fondo la fede non è un grande amore?
Il terzo è il tempo dell’incontro. Arriva il padrone e “bussa”. Non sfonda la porta, e quando gli si apre, non entra a gamba tesa. Non si precipita sul divano, ma si cinge la veste, se la stringe ai fianchi e si mette a servire. E fa da servo ai suoi servi. Meraviglia delle meraviglie: un padrone che si mette a fare il servo. E’ davvero l’immagine un Dio capovolto! Un Dio a servizio della mia felicità. Perché lui è fatto così: trova la sua gloria non nel farsi servire, ma nel servire. A lui non piace ‘salire’. In fondo neanche lo può: perché non c’è niente e nessuno al di sopra di sé. Ma a lui va bene così, perché a lui, piuttosto, piace ‘scendere’. Non gli piace innalzarsi. Gli piace proprio abbassarsi fino al livello dei suoi discepoli, anzi al di sotto. All’ultima cena la scena del Maestro che si mette a lavare i piedi ai Dodici supera ogni immaginazione. Ormai la realtà ha superato la parabola.
2. “Allora Pietro disse: “Signore questa parabola la dici per noi o anche per tutti?”. Questa domanda te la leggo sulla punta del tuo cuore, caro Andrea. E io ti rispondo che, certo, questo messaggio è la bella notizia rivolta a tutti e quindi anche a te. Ma oggi questa buona notizia è destinata ‘in posta straordinaria’ a te in quanto tu, servo buono e fedele, stai per essere costituito “capo della servitù” e “amministratore” dei beni della casa (lett. ‘economo’). L’evangelista Luca ha presente la struttura comunitaria della Chiesa primitiva, articolata in piccole comunità con delle ‘guide’ a capo. Ecco: tu potrai essere ‘capo’ nella Chiesa se non “spadroneggerai sulla casa di Dio, e non ti atteggerai a padrone delle persone, ma ti farai modello del gregge” (cf 1Pt 5,3).
Di qui una cascata di auguri, carissimo don Andrea. Ti auguriamo di non “fare mai da padrone della fede dei fedeli a te affidati, ma da collaboratore della loro gioia” (cf 2Cor 1,24). Ti auguriamo di non considerare mai la comunità a cui verrai affidato né come un peso, né come un premio, ma sempre e solo come un dono: un dono immeritato e prezioso, da non far diventare mai né tuo monopolio esclusivo né tuo tesoro geloso. Ti auguriamo che quando arriverà l’ora dell’ultima venuta dello Sposo, tu non ti metterai a recriminare perché a te, che hai lavorato nella vigna fin dal mattino, verrà consegnata la stessa busta-paga distribuita agli operai dell’ultima ora. Ma benedirai il tuo dolce ‘padrone’, per la straripante misura di gioia che ti verrà riversata in cuore.
Perché – non dimenticarlo mai – è meglio sentirsi amati che venire pagati.
Rimini, Basilica cattedrale, 30 settembre 2018
+ Francesco Lambiasi