Accesa dalla fede, infiammata dalla carità, sostenuta dalla pazienza
Omelia per l’ordinazione sacerdotale di Eugenio Savino e Filippo Rosetti
Bella, la vita del prete. No, non è una bella vita, ma una vita bella, sì. Questo non è uno slogan ad effetto, ma parola di Paolo, e dunque parola di Dio. Nella sequenza della seconda lettura di oggi (1Tm 6,11-16), l’Apostolo si rivolge a Timoteo, come all’uomo di Dio, responsabile della comunità di Efeso, e nel giro di appena due versetti (vv. 12-13), per ben tre volte martella a ripetizione l’aggettivo ‘bella‘. Gli raccomanda solennemente di combattere “la bella battaglia della fede”, gli ricorda “la bella professione di fede”, data da Timoteo davanti a molti testimoni, e lo riconduce alla “bella testimonianza” resa da Gesù “davanti a Ponzio Pilato”.
1. Ma ora dobbiamo misurarci con una domanda: è proprio vero che la vita del prete è bella? E quali sarebbero i contrassegni inconfutabili di tanta bellezza? Qui non abbiamo bisogno di risposte impastate di una barbosa retorica, sterile e stonata. Vorrei allora rovesciare la prospettiva e chiedermi con voi: abbiamo mai incontrato preti che hanno vissuto una vita bella, piena, straripante di bene, felice perché feconda e feconda perché gratuitamente e irreversibilmente donata? Certamente sì. Tra i tanti, me ne vengono in mente due, che direttamente o indirettamente, abbiamo conosciuto, e perciò penso possa bastarne semplicemente il nome: don Pino Puglisi e don Oreste Benzi. Due esistenze del tutto diverse, due uomini non perfetti, ma innamorati e lieti: anche inquieti, ma mai tristi, nei quali si riscontra puntualmente il corredo delle sei virtù che Paolo raccomanda al fedele Timoteo: la giustizia, la pietà, la fede, la carità, la pazienza, la mitezza. In particolare ne vorrei ripercorrere la trilogia centrale: la fede, la carità, la pazienza.
La vita del prete è bella perché è infiammata dalla fede, che – non dimentichiamolo – non è l’osservanza impettita di una gelida lista di riti e di precetti, ma è la sequela appassionata di una persona, Gesù crocifisso e vivente. Una sequela che nasce con un grido (“Signore, salvami!”), fiorisce nel canto (“Alleluia!”), e finisce con il giubilo del Magnificat.
La vita del prete è bella perché la fede lo tutela dal pericolo mortale di vivere un’esistenza raggrinzita in un narcisismo ripiegato e mesto, mentre invece solo la fede può dispiegare il corso dei giorni in uno slancio d’amore, in una consegna di sé, gratuita e immancabilmente lieta. La fede del prete, quando è di buona lega, si traduce in un continuo processo di conversione, in quell’infaticabile lasciarsi plasmare dall’amore del Signore, il quale – Geremia insegna – non si stanca mai di modellarci, anzi ci cesella con divina tenacia, senza scartare nulla della nostra umile, fragile creta. Mentre il mondo ci vuole ‘bravi’, il Signore invece ci vuole rendere ‘belli’. Raccoglie tra le sue mani anche i cocci rotti dei nostri limiti, dei nostri penosi fallimenti, perfino dei nostri peccati, e impasta tutto daccapo, fino a compiere il miracolo di un “tesoro in vasi di creta”, fino a inventare la meraviglia di una piccola, stupenda opera d’arte.
La vita del prete è bella perché illuminata da una fede umile e fiera. Siamo contenti del nostro essere preti. Non in maniera orgogliosa e trionfalistica, e nemmeno per una questione di prestigio civile o sociale. Non ci dispiace affatto che il ministero presbiterale oggi abbia perduto non poco dei privilegi e dell’aura sacrale che un tempo lo innalzava ai ranghi più alti. Siamo grati e umilmente fieri che ci sia stato dato il vangelo e la possibilità di servirlo in un ministero non meritato da noi, ma a noi donato per pura grazia.
2. San Paolo, dopo la fede, raccomanda a Timoteo la carità. La vita del prete è bella perché è riscaldata dal fuoco dell’amore. E’ una carità tridimensionale. Ha l’altezza dell’amore sponsale di Cristo, che mi ha amato fino alla morte di croce e mi ha chiamato ad un amore che porterà anche me a donare la vita su una croce. Perciò il Signore ha il diritto di chiedermi non solo che io non ami qualcuno più di Lui, ma anche che io ami di amore sponsale soltanto Lui. Con una relazione esclusiva, ma non escludente. Perciò debbo e posso amare tutti i fratelli, senza alcuna preferenza di persone, se non dei poveri, i suoi preferiti, che io amerò per Lui, con Lui, in Lui: è la dimensione orizzontale. Ma la carità pastorale deve avere anche la profondità della fraternità presbiterale: non sono io il solo prete nella Chiesa diocesana, e comunque io non posso fare il prete da solo. Sono membro di un solo presbiterio, formato dal vescovo e dai confratelli. Il presbiterio non solo mi somministra il vaccino contro i virus del protagonismo clericale, ma mi fornisce anche le vitamine per crescere nella comunione fraterna e per poter declinare i verbi del ministero secondo la grammatica evangelica: prima Dio e il suo popolo sacerdotale, poi noi – presbiterio – poi io, povero presbitero.
Infine, a sorpresa, dopo aver raccomandato a Timoteo la fede e la carità, san Paolo non parla della speranza, ma della pazienza, una virtù silenziata nella nostra cultura. Sarà perché richiama quella rassegnazione passiva e quell’attesa supina di fronte agli eventi che non è certo il senso della ypomonè di san Paolo, che letteralmente significa costanza nella vita quotidiana, resistenza nelle avversità, fedeltà nella prova. Così è la pazienza del contadino (cf. Gc 5,7-11), il quale non rinuncia a seminare il campo, anche se sa bene che insieme al buon grano potrà crescere la gramigna. E non si risparmia fatica e sudore, anche se dovesse intuire che non toccherà a lui la gioia di raccoglierne il frutto.
La vita del prete è bella non perché sia comoda, brillante e abbonata al successo, ma perché il prete con ‘santa pazienza’ accetta le sfide, resiste alle fatiche, non bypassa ma attraversa frustrazioni e sconforti. E questo non per un atteggiamento stoico e spavaldo, ma perché la sua vita è stata ‘afferrata’ dal buon Pastore. Da una parte il Pastore crocifisso è la gigantografia di tutte le ragioni che congiurano contro la speranza: il dono di sé incompreso e deriso (“Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso”); perfino la fiducia in Dio messa in dubbio, perché inefficace (“Ha confidato in Dio. Lo salvi Lui, se gli vuol bene”). Ma se da un lato il Crocifisso sembra essere la più irrimediabile disfatta della speranza, dall’altro ne rappresenta la più irriducibile rivincita. Il Crocifisso è la figura di un amore che nessuna violenza è riuscita a scoraggiare, e che all’ostinazione del rifiuto oppone la tenace dedizione del perdono. Poggiasse sulla santità di noi poveri preti, la pazienza-speranza sarebbe cosa assai fragile. Invece è solida perché poggia sulla santità del buon Pastore, che ha stravinto sulla morte, e sulla sua imbattibile misericordia, sempre più ostinata della nostra pur ostinata miseria.
Carissimi Eugenio e Filippo, permettetemi ora di consegnarvi alcuni piccoli ‘ricordi’. Innanzitutto non dimenticate mai che è più importante ciò che Cristo fa in me di ciò che io faccio per lui. E’ più importante agire in comunione con il presbiterio che fare tutto da soli. Ed è più importante la testimonianza di una fraternità concretamente vissuta che non l’organizzazione pastorale.
Carissimi, che il Signore vi tenga le mani sulla testa e che voi teniate la testa sotto le sue mani!
Rimini, Basilica Cattedrale, 25 settembre 2016
+ Francesco Lambiasi