Catechesi tenuta dal vescovo Francesco Lambiasi in forma di contemplazione guidata, davanti al Crocifisso di Giotto, nel duomo di Rimini, per la celebrazione diocesana della Giornata Mondiale dei Giovani, il 15 marzo ’08.
Vi dico la verità: ho tanta paura stasera di sciupare un dono grande che il Signore sta per farci, il dono del Padre. Mi spiego meglio: nel suo libro, Gesù di Nazaret, il Papa si pone una domanda ardita: che cosa è venuto a portarci Gesù sulla terra se non ci ha portato la pace, il progresso materiale, il benessere psico-fisico? “Dio – risponde il Papa – Gesù ci ha portato Dio”. Esplicitiamo: Gesù ci ha portato il Padre, ci ha portati al Padre.
Vorrei ora condividere con voi questo dono della rivelazione del Padre, quasi prendendovi per mano e accompagnandovi ai piedi del grande Crocifisso giottesco, il capolavoro più stupefacente della nostra stupenda cattedrale.
E lo faccio raccontandovi un altro dei miei sogni. Dunque, l’altra notte ho sognato un incontro di quelli possibili solo nei sogni: un incontro tra Giotto e Tommaso d’Aquino, avvenuto proprio qui, in duomo, attorno al 1300, quando il mitico maestro fiorentino si trovava a Rimini per dipingere il Crocifisso, commissionato per il convento francescano che qui aveva sede. La cosa è storicamente impossibile, perché quando Tommaso morì (1274), Giotto aveva appena sette anni, ma, appunto, visto che nei sogni queste cose succedono, se permettete, io ve lo racconto.
Nella penombra del chiostro francescano, che esisteva qui, prima della costruzione del tempio malatestiano, vedo avanzare con andatura lieve e solenne un frate domenicano pingue e piuttosto tranquillo, dallo sguardo acutissimo. Si avvicina al pittore e lo saluta:
– (T.) Mastro Giotto, sono in viaggio verso Parigi, dove vado ad occupare la cattedra di magister in sacra theologia. Vengo dallo studio domenicano di Bologna; mi trovo qui ad Arimino per una breve sosta di tre giorni, e siccome mi hanno detto di voi, che state dipingendo un crocifisso per la cattedrale, eccomi qua…
– (G) Fra’ Tomaso, vi manda il cielo. Il mio crocifisso è quasi completato; ci manca solo il capo, ancora da dipingere. Che ve ne pare?
– (T.) Mastro Giotto, ha ragione Dante, che vi ha immortalato nella sua Commedia, il divino poema, “al quale ha posto mano cielo e terra”:
Credette Cimabue ne la pintura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
Vedo che il tronco del corpo del Cristo è anatomicamente perfetto e risalta innocente sulla croce azzurra. Quando sarà completato, strapperà grida di stupore ai fedeli, che rimarranno sbalorditi alla rivelazione della concretezza della vittima e di fronte alla nobile compostezza del corpo appesantito e livido nella morte: il ventre è gonfio e lasso, le ginocchia appena piegate, il perizoma leggermente velato lascia trasparire la figura sottostante. Mi piace anche il contrasto del corpo cadaverico con quell’unico segno di vita: il fiotto vivo di sangue che zampilla dal costato a dire una risurrezione già incominciata, a ricordare che la vita fiorisce proprio dalla croce. Mi sembra che più che sullo strazio delle carni, sulle ferite e rivoli di sangue, insomma più che sul dolore, mi pare abbiate voluto mettere in risalto l’amore del Cristo, che certamente lascerete trasparire dal suo volto. Infatti non è tanto il dolore di Cristo che ci ha salvati, ma il suo amore… Ma intorno alla croce, mastro Giotto, quali figure pensate di dipingere?
– (G) Attorno alla mia croce, ci voglio il discepolo amato con il volto del beato A. Marvelli; poi mi ci piacerebbe Maria, la madre, che vorrei ritrarre con il volto di Madre Teresa di Calcutta, e ancora Maria Salome con i lineamenti della venerabile Carla Ronci. Sto pensando anche di metterci la figura del Cireneo, che avrà la fisionomia buona e paciosa di don Oreste Benzi…Ma mi sono bloccato di fronte al volto. E dire che ne ho dipinti già diversi di crocifissi: a Firenze, ad Assisi, agli Scrovegni di Padova. Ma questo di Arimino proprio non mi riesce. Mi sono fermato a questo punto perché vorrei ritrarlo con dei lineamenti dolcissimi – non ho mai condiviso le pose tormentate e drammatiche, preferite dal mio maestro Cimabue – ma ogni volta che ci provo e ci riprovo, mi ritrovo impotente, come paralizzato, perché mi sento straziare l’anima da quell’urlo raggelante, che ha fatto rintronare tutta la terra: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Mi dico e ridico in continuazione: ma dov’era il Padre quel 14 di nisan, quando si fece buio su tutta la terra? e se, come dite voi teologi, il Padre era là sul Golgota, perché non si è fatto vedere? perché non ha mandato qualche miriade di angeli o almeno il profeta Elia a liberare suo Figlio? perché, perché non gli ha risposto?
– (T) La vostra domanda, mastro Giotto, va affrontata di petto: Dio Padre non poteva salvare il Figlio dalla morte? Nel porci questa domanda, noi in genere pensiamo che, mentre Gesù muore, il Padre se ne stia impassibile ad attendere che il Figlio gli presenti il prezzo del sangue come riscatto per noi peccatori. Ma, se le cose stessero così, avremmo un dio-mostro, non il Padre nostro. Il volto che la Bibbia e Gesù in particolare ci rivelano di Dio è quello di un Padre che soffre nel vedere i suoi figli perdersi, che non vede l’ora di riabbracciarli, e quando non può proprio fare a meno di correggerli, si deve fare violenza “poiché – sta scritto – contro il suo desiderio egli umilia e affligge i figli dell’uomo” (Lam 3,33).
– (G) Questo lo posso capire, fra’ Tomaso, nei confronti di noi, creature deboli e peccatrici, ma perché il peccato del mondo deve ricadere sulle fragili spalle dell’unico Figlio innocente? Di nuovo mi sale in gola la domanda angosciante: perché il Padre non risponde al grido straziante del Figlio?
– (T) Mastro Giotto, è vero, è tremendamente vero: sulla croce Gesù sperimenta la desolazione più amara e l’abbandono del Padre, ma non si tratta di un abbandono effettivo; il silenzio del Padre non è un silenzio di indifferenza; è un silenzio di sofferenza e di voluta impotenza… Il Padre si è “autocostretto” in forza del suo amore a rendersi impotente per permettere al Figlio di dare la prova suprema della sua volontà di autodonazione: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). Dunque non è vero, non può essere vero che il Figlio soffre e il Padre sta a guardare. No, è certo: anche il Padre soffre. I genitori di questa terra, cha hanno fatto la tristissima esperienza di essere disprezzati e rinnegati dai figli, capiscono il dolore che c’è dietro queste parole di Dio: “Ho allevato e fatto crescere dei figli, ma essi si sono ribellati contro di me” (Is 1,2). E ancora: “Popolo mio, che male ti ho fatto? In che cosa ti ho contristato? Rispondimi” (Mi 6,3). Mi commuove sempre il seguente brano del profeta Geremia, che si potrebbe intitolare “i sogni infranti di un padre”:
“Io pensavo: Come vorrei considerarvi tra i miei figli
e darvi una terra invidiabile
Io pensavo: Voi direte: Padre mio,
e non tralascerete di seguirmi” (Ger 3,19).
Ecco la verità: sulla croce Dio soffre due volte. Soffre nel vedere l’umanità che rifiuta il sacrificio d’amore offerto dal Figlio, e soffre nel vedere il suo Figlio innocente caricarsi dei peccati dei suoi fratelli e venire respinto con odio e accanita, feroce violenza. Certo, Dio soffre di una sofferenza che per noi resta un mistero, ma è un mistero d’amore: non si affligge per sé, quasi che gli manchi qualcosa, ma per l’umanità ridotta come un enorme gregge sbandato e smarrito. Dio Padre soffre per il Figlio che si offre per la sua liberazione e si vede rifiutato e addirittura deriso.
– (G) Ma allora, ditemi, fra’ Tomaso: perché si parla di riscatto? se siamo stati liberati a caro prezzo, chi ha pagato a chi? cioè chi ha pagato e a chi è stato pagato il prezzo del riscatto?
– (T) E’ vero, messer Giotto, che nel Nuovo Testamento si parla di croce come riscatto, ma solo per dire che la nostra liberazione è costata molto a Gesù, non che egli abbia dovuto pagare qualche prezzo a Dio come a un creditore fiscale. Anzi è il Padre che “ci rimette”: ci rimette appunto la vita del suo Figlio, si gioca il suo bene più caro. Ma – lasciatemi insistere – Dio non si affligge tanto per l’offesa recata a lui (chi potrebbe fargli veramente del male?), quanto per il male che l’uomo reca a se stesso o ad altri uomini.
– (G) Vi ringrazio, fra’ Tomaso, ma perché allora si parla della morte in croce di Gesù come di una soddisfazione resa a Dio rispetto all’offesa arrecatagli dal peccato?
– (T) Consentitemi un’autocitazione, maestro Giotto. Ho scritto nelle dispense per i miei studenti che “il peccato non offenderebbe Dio se non facesse male all’uomo”. Cioè: se per assurdo il peccato non costituisse una vera autodistruzione dell’uomo, Dio non avrebbe motivo per dispiacersi. Insomma, siamo ritornati al punto capitale: Dio Padre si dispiace non perché il peccato gli tolga qualcosa, ma perché con il peccato l’uomo si perde e si autodistrugge. Quindi quella di Dio non è una “giustizia” assetata di vendetta, e la morte di Gesù lo “soddisfa” nel senso che il Padre in quella morte si rivela per quello che veramente è: un Dio che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. E’ veramente un Dio che vuole solo dare, senza pretendere nulla in cambio. A essere ferito e offeso non è il suo orgoglio, ma il suo amore. “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito…”.
– (G) Un’ultima domanda, mi dovete permettere, fra’ Tomaso: cosa vuol dire che quella di Gesù è stata una morte espiatrice?
– (T) Avete ragione, esimio maestro: nelle sante Scritture si parla della croce come espiazione, ma non si tratta di un castigo sostitutivo. Cristo ha sofferto per noi, cioè al posto nostro e a favore nostro, ma non è stato condannato al posto nostro. Il Padre lo ha consegnato alle nostre mani omicide, ma non è stato certamente lui a condannarlo. Una pagina di vangelo in cui si riflette la figura di questo Padre coinvolto personalmente nella passione del Figlio, è la parabola dei vignaioli omicidi:
“Aveva ancora uno, il figlio prediletto: lo inviò loro per ultimo, dicendo: Avranno rispetto per mio figlio!” (Mc 12,6).
Per aiutarci con un esempio: se un padre incoraggia il figlio a dedicarsi ai malati di AIDS, pur sapendo l’alto rischio di contagio, noi non parliamo di un padre che condanna a morte il figlio… E’ vero che in S. Paolo leggiamo che “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi” (Gal 3,13), ma Paolo ragiona qui alla maniera degli ebrei: Gesù è maledetto agli occhi della legge, perché è stato appeso al patibolo. Cristo non è maledetto agli occhi di Dio!
– (G) Grazie, fra’ Tomaso: vi ha mandato veramente il cielo. Adesso che mi avete illuminato sulla santa passione e morte del Signore, vi confido: ho avuto una ispirazione. Dipingerò il volto del Crocifisso con il capo reclinato che sembra riposare dolcemente nella conca lucente dell’aureola. Vorrei che quelli che lo contempleranno, possano ascoltare la voce di Gesù che proclama solennemente: “Chi vede me, vede il Padre”. Cioè: chi mi vede soffrire, veda in me la sofferenza del Padre. Chi mi vede amare, senta pulsare in me l’amore del Padre. Chi ricorda che ho perdonato i miei crocifissori, ricordi sempre che ho chiesto anche al Padre di perdonarli, perché non sanno quello che fanno. Vorrei che ad ognuno che contemplerà questo mio dipinto, gli venga la voglia di gridare con s. Agostino:
“Quanto ci hai amato, o Padre buono, che non ti sei risparmiato il tuo unico Figlio, (non te lo sei tenuto come un tesoro geloso), ma lo hai consegnato per noi cattivi! Quanto ci hai amato!”.
Io, Giotto di Bondone, vorrei che ogni cristiano si decidesse a fare Pasqua e ad esclamare con le parole della liturgia:
“O meravigliosa condiscendenza della tua bontà per noi (Padre santo)! O inestimabile tenerezza di carità: per salvare il servo, hai donato il Figlio!”.
Vorrei sinceramente, frate Tomaso, che a quanti si recheranno nel duomo di Arimino a contemplare questo mio Crocifisso, venisse in cuore la voglia di cantare con le parole di un negro spiritual, accompagnate da una melodia struggente:
“Alleluia, Padre mio. Tu hai dato a noi il Figlio. L’hai mandato in questo mondo per salvare tutti noi. Sapevi che te lo avremmo ucciso e radiato dalla terra… Alleluia, Padre mio, la sua morte è la mia nascita”.
* * *
Il sogno si è interrotto qua. Ovviamente era inventato, ma il Crocifisso di Giotto è vero ed eccola qua, esposto al nostro sguardo ammirato e commosso.
Beati noi se ci lasceremo incantare da questa splendida icona, come se la vedessimo per la prima volta.
Ancora più beati se ci lasceremo toccare dalla storia che l’icona di Giotto racconta e ci faremo perdonare dal Padre per donare, come Gesù, la nostra vita ai fratelli.
Beati noi: perdonati per-donare!