Perché cercate tra i morti colui che è vivo?

E’ risorto, cammina con noi, ci precede “in Galilea”

Omelia tenuta dal Vescovo nella Messa del giorno di Pasqua

         Tutto era miseramente finito quel 14 di nisan a Gerusalemme sul Calvario all’ora nona, quando il Crocifisso “dando un forte grido, spirò”. Lo mettono concordemente in evidenza le testimonianze di Matteo, di Marco e di Luca: il nostro Salvatore era morto così. Tutto finito? No, con quel grido a gran voce tutto era ricominciato. In effetti l’uomo che muore, si spegne stremato dall’agonia, con respiri sempre più lenti e più flebili. Invece l’ultimo segno di vita del Figlio di Dio è il grido trionfale di una vittoria annunciata, che si dispiegherà in pienezza la mattina di Pasqua e si realizzerà progressivamente nella vita ecclesiale e nel crescere in noi della grazia divina. Il suo non è il rantolo del moribondo, ma il grido del neonato: mentre muore alla vita terrena, Cristo rinasce alla vita nuova e diviene “spirito datore di vita” (1Cor 15,45).

A quello del venerdì santo fa eco il grido di stupefatta sorpresa del mattino di Pasqua: è risorto, non è qui!

Non è nella schiera dei potenti della storia, che per quanto si siano o siano stati pateticamente dichiarati immortali, non sono riusciti a sconfiggere l’ultima Nemica, la morte, e nessuno li ha mai visti uscire gloriosi e trionfanti dai mausolei in cui sono stati rinchiusi e imbalsamati.

Non è nella serie variopinta degli illustri sapienti e insigni maestri dell’umanità: per quanto possano brillare ancora le loro dotte teorie, nessuno li ha mai visti scendere vivi e vegeti dall’alto piedistallo dei loro monumenti.

Non è nella trafila dei grandi benefattori dell’umanità: per quante malattie siano riusciti a debellare, per quante provvidenziali scoperte abbiano siglato, per quante geniali invenzioni abbiano escogitato, un bel giorno sono andati a finire anch’essi, come tutti, nel registro dei defunti, e non ne sono stati mai più cancellati.

Non è nella compagnia dei grandi fondatori di religione, che ormai giacciono nella polvere e nessuno di loro può dire come lui: “Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi” (Ap 1,17-18).

Non è qui. E’ risorto. Ma dov’è adesso? Lontano da noi, ci verrebbe da dire.

Lontano dal nostro cielo che ha tanto amato? dalla nostra terra in cui, tra la gramigna della malizia, ha seminato il grano della pace? lontano dalla nostra carne di cui si è rivestito, dalle nostre malattie che pure si è addossato?

E’ risorto. Non è qui. Ma non è fuggito da noi, da questo nostro mondo impastato di grandezza e di miseria, da questa nostra umanità che ci espone alla fragilità e ci sbilancia nell’infinito. Non si è reso irreperibile ai nostri tormenti, alle scommesse dell’amore, ai rischi degli affetti, al sudore del lavoro, alla monotonia del quotidiano. Non si è rifugiato sul Tabor dove non si può non dire: “E’ bello stare qui”. No! lui se ne sta giù nelle nostre pianure, invase da paludi e pantani, dove le strade sono più trafficate e sdrucciolevoli, e i testacoda della speranza sono più imprevedibili e pericolosi.

Ora lui sta con noi più di prima. Perché non è reperibile solo in Palestina, ma dovunque l’uomo lotta, soffre e spera. Perché non è solo ieri che è venuto ad abitare in mezzo a noi, ma è oggi. Senza più i limiti del tempo e i condizionamenti dello spazio. La risurrezione del Nazareno ci regala una presenza eterna. Proprio perché è risorto non ci lascia più: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo”. Proprio perché è salito in cielo e vive nell’amore del Padre, rimane con noi, e in questo stesso abbraccio stringe tutti e ciascuno di noi. Entrando nella sovra-storia, non si chiama fuori dalla nostra storia, ma si fa contemporaneo a ogni avvenimento, compagno di viaggio di ogni cammino, interlocutore attuale di ogni esistenza. Eternamente presente, ci conduce per mano, ci costituisce popolo, ci fa sua Chiesa. E ripete: “questo è il mio corpo”, e “io ti assolvo”, e assicura che ogni bicchiere d’acqua donato “l’avrete dato a me“.

La grazia della Pasqua è di risorgere con lui, di morire al peccato e di non vivere più per noi stessi, ma per lui che è morto e risorto per noi. Ma per vivere già quaggiù da risorti, dobbiamo vivere come lui: non dobbiamo scappare dal mondo, rifugiarci negli eremi, chiuderci nelle sagrestie, dedicarci a raffinate esperienze di turismo spirituale. Dobbiamo certo cercare le cose di lassù, che però non sono le cose che stanno appese sotto il cielo o sospese a mezz’aria, ma sono i valori alti e grandi – quelli che chiamiamo valori “superiori” – le realtà che colmano la nostalgia di infinito che ci abita nel cuore.

Oggi – lo sappiamo, ma troppo spesso ce ne dimentichiamo – non basta più una fede professata nei cenacoli chiusi dentro le chiese, una fede ridotta alla frequenza a riti e funzioni sacre, scaduta a pratica abitudinaria di devozioni e precetti. Oggi i cristiani devono stare là, “in Galilea”, dove lui ci ha preceduto, dove la vita sembra scivolare su un piano inclinato verso lo strapiombo del nulla e la notizia della risurrezione appare una droga alienante o un dolciastro sciroppo consolatorio. Là, “in Galilea”, attestati sulle frontiere della vita e della morte, i cristiani devono stare con fedeltà, con passione e con gioia. Con grande gioia. Per dimostrare che incontrare il Risorto significa trovare un tesoro, non perdere un capitale. Per mostrare con fatti di vangelo che non c’è vita più umana di quella cristiana.

Nell’accadere degli eventi, nelle tappe del nostro destino terreno, dentro ogni occasione di gioia e dentro ogni dolore, noi possiamo chiamarlo: “Gesù”. “Sono qui, sono risorto e sono sempre con te”, lui ci risponde. Questa è l’autentica esperienza di Pasqua. E solo una Pasqua vera può essere veramente una buona Pasqua.

– Rimini, Basilica Cattedrale, 8 aprile 2012 –

+ Francesco Lambiasi