Varie volte ci capita – leggendo il Nuovo Testamento – di incontrare citazioni dell’Antico, introdotte da espressioni del tipo: “come sta scritto”, “come si legge”, “come dice la Scrittura”. Anche oggi, nella seconda lettura, abbiamo ascoltato la citazione di un testo poetico in tre stichi: “Svegliati, tu che dormi, / risorgi dai morti, / e Cristo ti illuminerà”. L’Apostolo introduce questo passo con la formula: “come è detto”. Ma è da notare un particolare alquanto insolito: di fatto il testo citato non si trova in nessun brano delle sante Scritture, al punto che l’edizione critica del NT – detta, dal cognome dei curatori, “Nestle-Aland” – nella colonnina a lato dove vengono riportate le referenze bibliche, riguardo a quel “è detto”, annota a margine un interrogativo “unde? dove?”. Il passo citato sembra provenire da un antico inno pasquale-battesimale, per cui, secondo una esegesi assai probabile, Paolo vorrebbe indicare che tale passo “è detto”, non però nelle Scritture, bensì nella liturgia in uso nelle prime comunità cristiane. Sappiamo infatti della prassi antichissima di chiamare il battesimo, che si celebrava la notte di Pasqua, illuminazione: basti ricordare il passo della Lettera agli Ebrei: “Richiamate alla memoria quei primi giorni nei quali siete stati illuminati” (Ebr 10,32; 6,4).
1. Ecco lo splendido commento del nostro passo, a firma di Clemente Alessandrino: “Noi, i battezzati, siamo stati illuminati; siamo stati liberati dai peccati, la cui oscurità faceva ostacolo allo Spirito Santo. Ora abbiamo gli occhi dello spirito liberi, trasparenti, luminosi, e mediante essi vediamo Dio”.
Per capire ancora meglio il tema della illuminazione battesimale, ci può aiutare il canto della perla, che si trova in un libro apocrifo, detto “Atti di Tommaso”. In questo inno si parla del figlio di un re, inviato dal padre in Egitto, a recuperare una perla preziosa, custodita nella tana di un serpente. Arrivato davanti alla tana e ammaliato dal serpente, il giovane cade in un sonno profondo, fino a quando non gli giunge una lettera che gli riporta la voce del padre: “Alzati, figlio; svegliati dal sonno. Ricorda chi sei; ricordati della perla per cui sei sceso in Egitto”. Allora il giovane si sveglia, si scuote, lotta con il serpente e vince. Si impossessa della perla, ritorna nella reggia e viene accolto dal padre in una festa trionfale.
Ritornando all’antico frammento battesimale, riportato nella seconda lettura, vi riscontriamo i due verbi fondamentali, usati nel NT, per dire la risurrezione del Signore (“svegliarsi” e “risorgere”), e nella nuovissima versione del Lezionario italiano, in uso oggi per la prima volta, notiamo che il secondo stico del canto citato da Paolo non viene più tradotto con “dèstati” – come nella precedente versione della Bibbia detta di Gerusalemme – ma “risorgi dai morti”. Come si vede, non si tratta di un semplice inno liturgico, ma di una profonda visione dell’esistenza del cristiano, il quale con il battesimo, è veramente uomo “risorto” e discepolo “illuminato”, che deve comportarsi come figlio della luce.
Il poeta francese Paul Claudel esprimeva la sua conversione come una improvvisa, folgorante illuminazione, con accenti commossi:
“Dio mio, sono risorto e sono con te! Dormivo, ed ero coricato come un morto nella notte. ‘Dio disse: Sia la luce’. Ed io mi sono risvegliato, come si getta un grido! Padre mio, che mi hai generato prima dell’aurora, mi colloco nella tua presenza. Il mio cuore è libero e la mia bocca è netta, il corpo e lo spirito sono a digiuno. Sono assolto da tutti i miei peccati che ho confessato uno ad uno. L’anello nuziale è al mio dito e il mio viso è pulito. Sono come un essere innocente nella grazia che tu mi hai concesso”.
2. Il tema della illuminazione caratterizza tutta la liturgia di questa IV domenica di Quaresima. Nella prima lettura il profeta Samuele, al momento di scegliere il nuovo re d’Israele, è invitato a non farsi condizionare dall’aspetto e dalla statura dei figli di Iesse, ma a guardare come il Signore, che non vede l’apparenza, ma vede il cuore. Nella seconda lettura i cristiani della comunità di Efeso vengono esortati a comportarsi come figli della luce, e concretamente a “cercare di capire cosa è gradito al Signore”. Nel vangelo ci specchiamo nel giovane cieco dalla nascita e, come lui, siamo chiamati a lasciarci aprire gli occhi del cuore da Gesù, l’Inviato del Padre, venuto in questo mondo “perché coloro che non vedono, vedano”, senza lasciarci accecare dall’orgoglio e sviare dalla menzogna del peccato.
Concretamente questo tema della illuminazione si riflette in quello corrispettivo della contemplazione. Ci domandiamo: che cosa significa vivere quella che Carlo Carretto chiamava “la contemplazione sulle strade”?
La contemplazione è un modo di essere che assomiglia a una fiamma tranquilla che brucia di continuo in un mondo oscurato dal peccato. E’ un modo di vivere alla presenza di Dio, che ci rende capaci di rintracciare le orme del suo cammino dentro di noi e attorno a noi. Dio è il presente, colui che è dovunque noi siamo, e questa consapevolezza ci fa più attenti a ciò che avviene nel momento presente. La contemplazione ci rende consapevoli che, a definirci persone uniche, originali, irripetibili, non è ciò che facciamo, ma ciò che siamo. Perché se ciò che facciamo è solo un “fare”, allora facilmente distruggiamo la realtà di ciò che siamo alla luce di Dio. Se ci identifichiamo con le molte cose da fare, allora corriamo il serio pericolo di diventare come Marta: degli inquieti, nevrotici affaccendati, non dei discepoli innamorati.
La contemplazione ci fa vedere Dio con gli occhi di Cristo: non come il grande orologiaio dei mondi, né come il poliziotto sempre in agguato, e neanche come un astratto pensiero incolore, inodore, insapore, ma come il Padre forte e tenero, con un cuore più tenero del cuore di una madre. La contemplazione ci fa vedere la Chiesa non come un museo di antiquariato, né come un’azienda a reddito, ma come la casa-famiglia della divina, umanissima misericordia, abitabile e accogliente. La contemplazione non ci chiude, ma ci schiude gli occhi alla drammatica realtà del mondo, perché se Dio ama questo mondo non è perché il mondo sia particolarmente amabile, ma perché senza Dio, da sé solo, non si potrebbe minimamente salvare. Questa direzione di fondo ci consente di andare oltre l’ovvio e di vedere anche ciò che non può esser visto ad occhio nudo, come le ferite interiori, le speranze segrete, i desideri repressi, i sogni inconfessati, i bisogni inappagati.
Più la nostra vita è centrata su Gesù, più si svilupperanno i tratti dell’uomo nuovo, integralmente unificato e intimamente pacificato. Ecco alcuni tratti: si prega di continuo, ci si nutre con moderazione, si veste modestamente, si usa con saggezza il denaro, si trattano gli altri con rispetto. Imparando a contemplare, impariamo ad abbracciare senza soffocare, a discutere senza aggredire, a piangere senza amareggiarci. Si diventa capaci di correre senza competere, di impegnarsi senza stressarsi, di sfogarsi senza svuotarsi. Impiegheremo meglio il tempo libero; useremo i media con sobrietà; lavoreremo con impegno e buon umore; saremo immersi nella nostra missione, ma non sommersi dal cumulo delle tante faccende. La qualità di ciò che facciamo è più importante della quantità di cose che facciamo o dei posti che occupiamo, dei risultati che conseguiamo.
La contemplazione è un viaggio di amore, un appassionante pellegrinaggio del cuore. Il proprio io è dimenticato, ma ci si trova a proprio agio con se stessi. Non abbiamo più paura degli altri che non potranno più intimidirci, poiché li avvolgiamo con la nostra preghiera. Saremo più accoglienti, più riconoscenti. Saremo più capaci di stupore; la meraviglia è sempre presente nel profondo del nostro cuore perché guardiamo al di là delle apparenze, mettiamo da parte i pregiudizi, smettiamo di fare confronti.
La contemplazione è anche l’unica terapia efficace per guarire dalle varie patologie della vista dell’uomo interiore: lo strabismo, che ci fa guardare Dio da una parte e le creature dall’altra. A mano a mano che camminiamo, la contemplazione rimette a fuoco il reale e ci fa vedere Dio nel mondo e il mondo in Dio; ci fa vivere non nell’assenza dal mondo, ma nella presenza di Dio. A mano a mano che camminiamo, veniamo guariti anche dalla miopia del cuore, che ci fa ingrandire le cose di Dio e dimenticare Dio, il Signore delle cose. E veniamo guariti dalla presbiopia interiore che compromette la capacità di non vedere bene da vicino e di dare i giusti contorni alle cose piccole e minute di tutti i giorni.
3. Il messaggio della contemplazione vi trova particolarmente sensibili, cari fratelli, sorelle e amici dell’AC. Voi ricordate che la prima consegna del “trinomio di Loreto” il 5 settembre 2004 è stata la contemplazione: “Impegnatevi – ci raccomandava Giovanni Paolo II – a camminare sulla strada della santità, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, unico Maestro e Salvatore di tutti”. E’ vero che l’anno in corso è dedicato alla missione, ma voi sapete che se la contemplazione senza la missione è vuota, la missione senza la contemplazione è cieca.
Nel Documento Programmatico per questa Assemblea avete scritto: “Solo riferendo a Cristo la nostra vita, attraverso l’ascolto della Parola, l’Eucaristia, la vita sacramentale, la preghiera quotidiana, possiamo continuamente ripensare e rinnovare il ‘parlare della vita da cristiani’, obiettivo tipico dell’Associazione”.
Come vostro Vescovo, vi dico con tutte le forze: di cristiani così ha bisogno l’AC! di un’AC così ha bisogno la nostra Chiesa riminese!
Preghiamo il Signore che ci aiuti a far crescere un’AC così: bella e possibile, mite e audace, unita e aperta, innamorata del Signore, fedele alla Chiesa, appassionata alla salvezza della società e del mondo.