Omelia tenuta in Cattedrale, per l’Ingresso in Diocesi di Rimini
“Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia chiamandomi al ministero” (1Tm 1,12). Permettetemi, carissimi, di applicare a me stasera le parole dell’apostolo Paolo, che abbiamo appena ascoltato. Con s. Agostino posso dire in tutta sincerità e semplicità: “Oggi voi mi vedete qui vostro vescovo per divina volontà”, ma “non ho cercato io il grado in cui mi trovo qui” (Disc. 335,2). Se ora mi è dato di cominciare a servire questa vostra, ormai “nostra” amata diocesi, non è né per meriti che io non ho acquisito né per un premio che non ho conquistato: è solo per un misterioso disegno della divina misericordia. Sì, misericordia è l’unica parola che stasera può essere detta da me, e anche da voi può essere detta di me, e come s. Paolo io non posso che esserne letteralmente sorpreso e stupito. Anch’io infatti “ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua misericordia” (II Lett.).
1. “Misericordia” è anche la parola che concentra il succo del santo evangelo che ci è stato appena proclamato. Se rileggiamo le tre parabole non in successione, ma in parallelo, cogliamo un messaggio in progress, che non possiamo non accogliere stupefatti e commossi. Ricordiamo il contesto storico, descritto da s. Luca: gli avversari avevano criticato Gesù “perché “riceveva i peccatori e mangiava con loro”. Non avevano criticato Dio, eppure Gesù si difende chiamando in causa proprio il Padre. Come mai? Tale replica sarebbe incongrua se non presupponesse, pur senza formularla esplicitamente, l’irrefragabile consapevolezza da parte di Gesù che Dio agisce qui e ora attraverso di lui: nelle parole e nei gesti del Figlio è il Padre stesso che si mette a cercare i suoi figli perduti.
“Mostrami, Signore, il tuo volto”: era stata la preghiera ardente di Giacobbe-Israele, di Mosè, di Davide, di Elia. “Il tuo volto, Signore, io cerco; non nascondermi il tuo volto”: questo è stato il sospiro vibrante di tanti e tanti giusti di Israele, da Abramo alla sua discendenza, fino a Giovanni il Precursore e a Maria di Nazaret, fino a Pietro e a Filippo di Betsaida, fino a Paolo di Tarso.
Ed ecco la risposta di Gesù alla fame di Dio che tormenta da sempre il cuore dell’uomo: “In verità vi dico, in verità ve lo dico io come è fatto il volto di Dio. E’ come il volto di un pastore tenero e premuroso, di una casalinga accorta e generosa, di un padre irriducibilmente misericordioso”. Tre immagini per scolpire un solo volto: il volto del Dio, ricco di bontà e di tenerezza. Se la prima immagine – il pastore – è quella di un uomo, la seconda – sorprendente per i suoi uditori, e anche per noi se non ci siamo assuefatti – è quella di una donna. Arrivato alla terza immagine, Gesù fa sintesi tra le prime due: mette insieme i tratti maschili del pastore e quelli femminili della casalinga, e ci pennella il volto di un padre buono con il cuore dolcissimo di una madre.
E’ veramente un cuore materno quello del padre della parabola: “quando (il figlio) era ancora lontano, lo vide e si commosse”. L’abbinamento di questi due verbi – vedere e commuoversi – è molto caro all’evangelista Luca, che vi aveva già fatto ricorso per descrivere l’approccio di Gesù nei confronti della vedova di Nain, nel momento in cui veniva portato alla sepoltura l’unico figlio, prematuramente scomparso: il Signore “la vide e si commosse” (Lc 7,13). La seconda volta questi verbi ricorrono appaiati nella parabola del buon Samaritano, e sono due dei dieci verbi usati per descrivere il soccorso da lui prestato a quel povero malcapitato, che era stato lasciato mezzo morto lungo la Gerusalemme-Gerico. Da notare che l’accento cade ogni volta sul secondo verbo – commuoversi – un verbo tipicamente materno, perché indica il sobbalzo del grembo quando la mamma si vede correre il figlio incontro: è appunto da quel brivido viscerale che si sente afferrato il padre misericordioso quando vede il figlio vagabondo, ancora lontano.
Così Gesù vede i suoi fratelli peccatori: li vede con gli occhi del cuore benevolo e compassionevole del Padre. Davvero “non si vede bene che col cuore; l’essenziale è invisibile agli occhi” (Saint-Exupéry).
Questa è la fotografia fedelissima, al più alto grado di risoluzione, del Dio “ricco di misericordia”, siglata da Gesù, il Figlio, che davvero è … tutto suo Padre! Essere onnipotente e accettare che il figlio minore se ne vada di casa, per accoglierlo poi a braccia aperte quando ritorna; lasciar perdere tutto e andare a cercare la pecora smarrita; essere padrone di ogni cosa e mettersi a servire i propri servi: questo modo divino e umanissimo di comportarsi si chiama misericordia.
2. Ma se ci fermassimo a questo punto, rischieremmo di fare di questo evangelo una lettura “datata”, storicamente fedele al suo originario contesto pre-pasquale – capace al più di darci una sorta di “Gesù fossile” – ma non una lettura “nello Spirito”, possibile solo alla luce della Pasqua, il vertice e compimento di tutta la storia di Gesù. L’evento capitale della morte e resurrezione infatti è la definitiva soluzione dell’enigma-Gesù, e quindi la completa risoluzione degli enigmi di Gesù, quali sono le sue parabole. La Pasqua – come rivelazione piena e definitiva della misericordia del Padre – richiede pertanto e insieme permette, anzi favorisce una reinterpretazione delle nostre tre parabole. Senza l’evangelo della misericordia la Pasqua sarebbe muta; senza la Pasqua l’evangelo della misericordia sarebbe morto: infatti senza la risurrezione, ogni parola di Gesù sprofonda nel nulla, soccombe al giudizio inappellabile del tempo e diventa fatalmente “lettera morta”. Dissociate dalla risurrezione, anche le parabole di Gesù diventerebbero “soltanto parabole”, come quelle dei saggi di cui parlava Kafka. E ad una parabola religiosa o cristiana se ne potrà sempre contrapporre una atea, per esempio a quella del figlio perduto una parabola del padre perduto: si pensi ai rifacimenti di D’Annunzio o di Gide.
Dobbiamo perciò chiederci: qual è il valore aggiunto, il fascio di luce che la Pasqua proietta sulla parabola del padre misericordioso e ne consente finalmente una piena comprensione? Forse potremmo ricostruire la parabola così. In un tempo senza tempo – senza né prima né dopo, senza né passato né futuro, senza ore né minuti né secondi e senza neanche millesimi di secondo – Dio ha generato, nello Spirito Santo, il Figlio del suo amore.
Da sempre il Padre ama il Figlio e gli mette tutto nelle mani: il Padre è il massimo dare, senza trattenere nulla per sé; e il Figlio riceve tutto e, senza trattenere nulla per sé, ridona tutto al Padre. Il Padre è la massima gratuità; il Figlio la massima gratitudine. La felicità del Padre e del Figlio per questo reciproco, irreversibile donarsi ha il volto e il nome benedetto dello Spirito Santo. Questa felicità divina, senza macchia e senza ombra, neanche Dio la può aumentare – perché ad essa non si potrebbe aggiungere neppure un atomo in più di ulteriore felicità – ma Egli la vuole liberamente condividere con noi. Ecco la creazione: “la chiave dell’amore aprì la mano di Dio – afferma s. Tommaso – e ne uscirono le creature”. Per amore, solo per nostro amore, Dio ci ha creati: “per il desiderio di farci felici” (Ps. Barnaba).
Ma poi sappiamo come è andata avanti la storia. Il padre della menzogna, il serpente antico, ha contagiato il cuore dell’uomo con il virus del sospetto contro Dio, il quale sarebbe morbosamente geloso della sua gloria, e si sarebbe implacabilmente accanito, per invidia, contro la nostra felicità: vedi il dramma del peccato originale. Le cose invece stanno esattamente al contrario. Radice del peccato è la cattiva opinione sul Padre, comune sia al figlio minore che al maggiore. L’uno, per liberarsene, instaura la “strategia del piacere” che lo porta ad allontanarsi di casa. L’altro, per monopolizzarne la benevolenza, instaura la “strategia del dovere”, con una religiosità servile, che sacrifica la gioia del vivere. Ambedue hanno l’idea di un padre-padrone, che – qualcuno ha detto – se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo, per tenere schiavi gli uomini (Voltaire); e se ci fosse, bisognerebbe distruggerlo, per poterli liberare dal suo giogo insopportabile (Bakunin).
Ma quanto più i figli si sono messi contro il Padre, tanto più Dio ha amato il mondo, fino al punto da mandare a noi nella pienezza dei tempi il suo unico Figlio come salvatore. “Ma che cosa ha portato Gesù veramente – si chiede papa Benedetto nel suo ultimo libro su Gesù di Nazaret – se non ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, un mondo migliore? Che cosa ha portato? La risposta è molto semplice: Dio. Gesù ha portato Dio. Ora noi conosciamo il suo volto, ora noi possiamo invocarlo. Ora conosciamo la strada che, come uomini, dobbiamo prendere in questo mondo. Gesù ha portato Dio e con Lui la verità sul nostro destino e la nostra provenienza: la fede, la speranza e l’amore”.
Alla luce della Pasqua, siamo così in grado di decifrare fedelmente e compiutamente l’evangelo della misericordia. E’ Gesù il Figlio, che letteralmente “era morto ed è tornato in vita”; è lui il pastore buono che si era perduto dietro i peccatori per cercare le pecore perdute del gregge di Dio; è lui il Figlio prediletto del Padre che ha preferito perdere la sua vita per salvare la nostra. E’ lui il vero “figlio prodigo”, che non ha dilapidato i beni del Padre per capriccio, ma si è “prodigato” per amore nostro, e “da ricco che era si è fatto povero per noi, per arricchirci con la sua povertà” (cfr. 2Cor 8,9). E’ lui il vero figlio maggiore, il primogenito di molti figli, che “non si vergogna di chiamarci fratelli”, noi che lo abbiamo tradito, venduto e ucciso (cfr. Eb 2,11).
A questo punto non ci resta che il grido di stupore grato e ammirato che s. Agostino formulava così: “Quanto ci hai amati, Padre buono, quanto ci hai amati, Tu che non hai risparmiato tuo Figlio, ma lo hai dato per noi peccatori!” (Conf. 10,43).
3. Prima di concludere, permettetemi di raccogliere due domande e di formulare una preghiera, che poi dovremo far risuonare nel nostro cuore e prolungare nelle nostre comunità.
Sono diversi secoli – almeno diciassette, se non diciotto – che nella nostra Chiesa è stato acceso il fuoco dell’evangelo pasquale della misericordia del Signore morto e risorto. Ma in quante comunità e da parte di quanti, che pure si professano cristiani, si conduce una vita come se Cristo non fosse veramente morto per i nostri peccati e non fosse realmente risorto per salvarci? Cosa dobbiamo confermare e cosa innovare, cosa dobbiamo “convertire” perché l’annuncio evangelico che risuona nelle nostre chiese perda la sua patina di cosa trita e ritrita e ritrovi la sua nota inconfondibile di “lieta notizia” dell’ultima ora?
Inoltre, se è vero che solo la misericordia è credibile, allora soltanto una Chiesa che sia autentica “casa della misericordia” ha le carte in regola per annunciare la rivelazione del Dio “Padre di ogni misericordia”. Grazie a Dio e per nostra buona fortuna, questa Chiesa non nasce oggi: essa è stata fecondata con il sangue dei martiri, è stata impreziosita con la santità di testimoni eroici – da s. Gaudenzo ad Alberto Marvelli – è stata paternamente guidata e felicemente introdotta nel terzo Millennio dal mio amatissimo predecessore, il vescovo Mariano, con la collaborazione infaticabile di questo presbiterio, di tante zelanti religiose e religiosi, di tantissimi laici, aggregati o non, uomini e donne, che hanno amato e amano questa Chiesa come la loro famiglia… Noi vogliamo continuare su questa strada, e perciò rinnoviamo l’impegno di andare incontro ai tanti che si sentono o sono “figli prodighi” – soprattutto a quelli che lo fossero per colpa nostra. Noi crediamo che anche loro sono nostri fratelli, e crediamo pure che l’evangelo della misericordia ci richiede di usare per loro la misericordia dell’evangelo. E dunque quali scelte precise, quali passi concreti ci sono richiesti – è la seconda domanda – perché la Chiesa di Rimini sia e venga vista come una casa abitabile da tutti gli smarriti di cuore, perché sia e venga frequentata come una vera casa della divina misericordia?
Infine l’impegno, che riguarda innanzitutto me. Il vescovo – voi lo sapete – è il sacramento, il segno-strumento della misericordia di Cristo Pastore. Ma è pure il segno che rende visibile ed efficace la misericordia di Dio Padre per i suoi figli, per una determinata porzione della sua santa famiglia che vive in un determinato territorio. Permettetemi allora di esortarvi con le parole di un vescovo molto più santo e sapiente di me, s. Ignazio di Antiochia: “Considerate nel vescovo l’autorità che gli è stata conferita da Dio Padre. Vedete in lui non la sua persona, ma il Padre di Gesù Cristo, vescovo di tutti” (Magn. 1,1).
Ora, mentre io mi assumo l’impegno di tendere a questo ideale, voi pregate per me, perché sia fedele a questo impegno fino all’ultimo giorno che l’altissimo, onnipotente e buon Signore vorrà concedermi.
“Al Re dei secoli incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen”.
+ Francesco Lambiasi, Vescovo di Rimini
15 settembre 2007