Omelia tenuta dal Vescovo per l’ordinazione presbiterale di don Alessandro Pironi
1. Pentecoste è qui. Il racconto dell’effusione dello Spirito Santo sugli apostoli riuniti nel cenacolo, come ci è stato pennellato dall’evangelista Luca, non è affatto destinato a farci ammalare di nostalgia. Verissimo: Pentecoste, la ‘copia autentica’ del nostro atto di battesimo, quale risulta dal ‘registro’ degli Atti, ci ha fatto vibrare nell’intimo e ha riacceso in noi il sogno di una Chiesa bella: mite e audace, fedele e creativa, gioiosa e coraggiosa. Una Chiesa unita in una comunione piena, senza incrinature e senza arroccamenti. Una Chiesa aperta sul mondo: immune dalla penosa sindrome dell’assedio, affrancata dalla frenetica smania di trionfi spettacolari e di eclatanti trofei.
Pentecoste è qui. Stasera, care Sorelle e Fratelli tutti, la nostra cattedrale fa da solenne cenacolo che in un caloroso abbraccio avvolge tutti noi, qui convocati non per una pallida rievocazione della prima Pentecoste e neppure per una sua malinconica, scolorita rappresentazione. Ma perché oggi la grazia della Pasqua qui si compie. E qui diventa nostra.
Pentecoste è qui. E lo è in modo particolare per te, carissimo Alessandro, che sei qui per venire investito dal vento gagliardo e dal soffio gentile dello Spirito, e per uscirne infiammato dal fuoco ardente del suo amore. Vorrei pertanto provare a rileggere la tua storia come tutta segnata dall’effusione dello Spirito del Risorto nello snodarsi della tua giovane vita.
2. Pentecoste è qui. Ma per te non è cominciata qui. Ha preso l’abbrivio il giorno del tuo battesimo, 32 anni fa. Quel giorno Gesù risorto sparse su di te il santo crisma del battesimo e ti riservò a sé. E si è avviata per te la grande avventura di una vita nuova nello Spirito, come fratello di Gesù e figlio del Padre nostro. Ecco la bella notizia: Dio è nostro Padre. Il Corano invece non applica mai ad Allàh il tenero nome di Padre. I nostri fratelli islamici si professano come i devoti, i sottomessi, gli umili esecutori di Allàh, ma non proprio i suoi figli. Solo i cristiani hanno imparato da Gesù – lo diciamo senza sbavature trionfalistiche – a chiamare Dio con una parola dolcissima, tutta da spremere e da sorbire: Abbà. E’ un termine dialettale con cui i bambini ebrei in casa chiamavano il papà, e che anche il piccolo Jeshù ha imparato da Maria per chiamare Giuseppe. Mentre in sinagoga Dio viene invocato come Abinu, Padre nostro, Gesù nel colloquio intimo con il Padre osava chiamarlo Abbà, con il linguaggio dei bambini, non quello, forbito, dei rabbini.
Questo santo Nome fa piangere lacrime di gioia e contagia brividi di tenerezza. Ci provoca a restaurare l’immagine di Dio che ci portiamo dentro. Scrosta dal cuore tutti i tratti distorti di un Dio disegnato come un tiranno implacabile, un giudice inflessibile, un irriducibile guastafeste. Ma sentirsi amati da un Dio che ci si fa conoscere come Padre-Abbà ci fa riconoscere anche la nostra autentica carta di identità. Se è Padre, allora noi non siamo né orfani sventurati né miserabili schiavi. Siamo figli: scelti, benedetti, amati, chiamati. E perciò fratelli tutti: tra tutti, con tutti. Questo non è un nostro privilegio elitario: esclusivo ed escludente. E’ dono gratuitamente offertoci e compito liberamente affidatoci. E’ la nostra più favolosa e invidiabile fortuna. E’ l’incalcolabile grazia dello Spirito che ci fa fremere di riconoscenza e grondare di dolcezza. E ci fa gridare a Dio: “Abbà, Babbo caro!”.
Pentecoste è qui. A Pentecoste gli apostoli vengono trasformati: ciò che si mettono a fare e che faranno nella persona dei loro successori, è smisuratamente più grande di loro. Ma la Pentecoste non rimane esiliata in un passato remoto. Germoglia e fiorisce nel presente in corso. Oggi, per le mani di un povero vescovo, lo Spirito Santo ti trapianta il cuore di pastore, caro Alessandro. E tu diventi continuatore di Cristo, il pastore bello perché buono e buono perché vero. Suo continuatore, non successore. Un successore prolunga l’opera del fondatore, ma non sostituisce la sua persona. Gesù, invece, non ha e non può avere successori. Non è un vivo ormai morto. E’ un morto redivivo, perché è risorto. Non come Lazzaro: risorto ma poi ri-morto. Questo, il compito dei ministri-pastori: ri-presentare, non rappresentare il buon Pastore. Renderlo presente, dare forma visibile alla sua presenza invisibile. Dove passa un pastore, si dovrebbe vedere il Pastore.
Ecco il segno specifico del sacramento dell’Ordine. In virtù dell’unzione dello Spirito Santo, i presbiteri sono marchiati a fuoco da uno specifico e speciale carattere che li configura a Cristo pastore, in modo da poter agire in suo nome, da poter vivere a sua immagine, da poter benedire, consacrare, riconciliare, guidare, servire in persona di Cristo, che dona la vita per amore.
4. Pentecoste è qui. Ma non finisce qui: è un evento perennemente contemporaneo. Accade sempre, ogni volta che invochiamo il santo Paraclito e lo accogliamo a cuore aperto, a braccia spalancate. Perché lo Spirito non si dona e poi ci abbandona. Non viene una tantum. Non ‘avviene’ a intermittenza o a giorni alterni. Ogni sua effusione diventa premessa e promessa di altre effusioni. Ogni sua venuta si risolve in segno e impegno di una escalation esponenziale, che culminerà nella fine senza fine di una felicità “che solo amore e luce ha per confine”. Questa beatificante verità mi ispira una litania di beatitudini che passo a declinare anche a nome del nostro presbiterio.
Beato te, don Alessandro, se sarai tenacemente convinto che il tuo dono primario e il tuo compito prioritario è quello di essere tessitore di comunione, costruttore di comunità.
Beato te, se vivrai la dedizione al popolo di Dio come l’ambito fecondo della tua identità e la cornice promettente di un’autentica spiritualità presbiterale.
Beato te, se il tuo servizio pastorale sarà mirato all’incontro intimo e intenso con Gesù, il divino umanissimo Innamorato che ti ustiona con la sua parola. E nella santa eucaristia ti contagia l’amore per la sua Sposa, la Chiesa. Per amarla come lui l’ha amata, come l’ama e l’amerà sempre.
Beato te, se la tua vita pastorale sarà mirata all’incontro con Dio, altrimenti resterebbe un carico insopportabile, uno stress frustrante, un affanno inconcludente.
Beato te, se la tua vita interiore ti porterà ai fratelli, specie i più poveri, altrimenti rischierà di risolversi in un devozionalismo ripiegato, in un triste, alienante intimismo.
Beato te, se non ti blinderai nel recinto del tempio, se non ti rintanerai nel nido della canonica. Ma ti immergerai nella vita della gente. E i tuoi abiti, più che odorare d’incenso, contageranno il buon profumo del bel Pastore e spanderanno l’odore gradevole delle sue pecorelle.
Beato te, se non scorderai mai che il primo dono dei presbiteri è la testimonianza di una fraternità cordialmente e concretamente vissuta. Perché è più importante dedicarsi alla comunione nel presbiterio che spendersi da soli in un ansioso, compulsivo attivismo.
Beato te, se il segreto della tua gioia lo troverai nella instancabile esposizione al roveto ardente dell’amicizia con il dolcissimo Signore della nostra vita. Una vita povera, ma radiosa e raggiante se il cuore sarà tenacemente tenuto ‘sotto carica’ nel cuore di Gesù, nostro grande Pastore.
Pentecoste è qui. Che la gioia di questo giorno brilli sempre nei tuoi occhi e non si spenga mai nel tuo cuore, perfino nei giorni della nebbia o della tempesta fino all’ultima sera della tua vita!
Rimini, Basilica Cattedrale, Solennità di Pentecoste, 23 maggio 2021
+ Francesco Lambiasi