Omelia del Vescovo nella liturgia della Passione del Signore
Non è del tutto corretto dire che “Gesù è morto”. Non lo è per il semplice fatto che la sua morte non è avvenuta né per infarto né per un attacco di polmonite. In verità Gesù è morto perché è stato ucciso. Anzi è stato crocifisso, il che sta a dire che è stato assassinato con il supplizio più infamante, è stato barbaramente trucidato con la tortura più atroce e raccapricciante tra tutte le possibili pene di morte che l’umana ferocia sia mai riuscita ad escogitare. Noi cristiani siamo ormai assuefatti al segno visivo della croce e all’immagine del crocifisso, tanto quell’immagine la vediamo disseminata dappertutto. Ma possiamo essere sicuri che, se noi avessimo assistito in tempo reale alla crocifissione della persona più cara che amiamo, quell’orribile, agghiacciante spettacolo ci sarebbe rimasto talmente cicatrizzato nella memoria che non ne avremmo voluto mai più trovare immagine alcuna in giro, né tenerla in casa, né tanto meno vederla, o addirittura esibirla, sul petto o su una divisa. Ma riprendiamo il nostro cammino di risalita alla ricerca del perché – ‘perché’ come causa, come senso e come scopo, ossia per quale motivazione, per quale significato e per quale intenzione – Gesù è stato crocifisso.
Possiamo intanto ribadire che Gesù è stato crocifisso perché è stato condannato, ed è stato condannato perché è stato processato. Certo, tutto ciò è avvenuto per una carica di cattiveria, di odio, di violenza, che non può essere né ipocritamente sottaciuta né diplomaticamente archiviata. Ma, così, ancora non abbiamo centrato il senso ultimo della morte in croce di Gesù. Le cause umane della sua morte – l’invidia dei farisei, la gelosia dei sadducei e dei capi del popolo, il tradimento di Giuda, l’ignavia di Pilato, il vile abbandono dei discepoli, il codardo voltafaccia della gente – tutte queste cause non spiegano tutto. Se Gesù è morto in croce, è perché lo ha voluto. Non nel senso masochistico del termine, quasi – nemmeno a immaginarlo! – per il gusto macabro di non vedere l’ora di spargere il suo sangue, ma in quanto – nella spirale di odio che stava per annientarlo – Gesù ha intercettato il misterioso disegno del Padre: non tanto quello di farlo morire, ma di chiedergli di amare fino all’estremo. Questo il Padre gli comandava e a questo ‘comandamento’ il Figlio spontaneamente e docilmente acconsentiva.
Ecco tre affermazioni del Nuovo Testamento in cui la morte in croce di Gesù viene interpretata come un atto di obbedienza al Padre. La più antica, probabilmente, la troviamo nella Lettera di san Paolo ai Filippesi: Cristo “si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). Inoltre leggiamo nella lettera ai Romani: “Per l’obbedienza di uno solo (Cristo) tutti saranno costituiti giusti” (Rm 5,19). Più esplicitamente è scritto nella Lettera agli Ebrei: Cristo “imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,8-9). Gesù in croce non è solo un modello – a noi esterno – di obbedienza, ma con la sua obbedienza è grazia di riconciliazione, radice interiore di vita nuova e “causa di salvezza” per tutti noi.
Ma Gesù non è stato obbediente al Padre solo in morte; lo è stato anche in vita. Se dobbiamo affermare – con l’Imitazione di Cristo – che “tutta la vita di Gesù è stata croce e martirio”, allora dobbiamo anche ribadire che tutta la vita di Gesù è stata un lungo, instancabile, progressivo atto di obbedienza. “Il mio cibo – dice Gesù nel vangelo di Giovanni – è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera”, e ancora: “Io faccio sempre le cose che gli (al Padre) sono gradite” (Gv 4,34; 8,29).
Ma perché l’obbedienza di uno solo ha giustificato, ossia ha reso giusti tutti? Per rispondere, teniamo nel debito conto questa affermazione di san Basilio: si può obbedire “per paura del castigo, ed è l’obbedienza dello schiavo; per attrattiva della ricompensa, ed è l’obbedienza del mercenario; o per amore di colui che comanda, ed è l’obbedienza del figlio” (Regole maggiori, Pr. 3). In effetti, Gesù ha obbedito a Dio Padre, non “pur essendo Figlio”, ma “proprio perché Figlio” (Eb 5,8; trad. di C. Marcheselli Casale), Figlio perfettamente amato dal Padre e il suo perfetto amante.
Ma non leggiamo forse nella Scrittura che Dio vuole l’obbedienza, e non il sacrificio (1Sam 15,22; Eb 10,5-7)? E’ vero, ma il sacrificio che Dio non vuole è quello di un povero animale, che non ha nulla a che spartire con i miei peccati. Mentre, volendo l’obbedienza del cuore, Dio non può non volere anche il sacrificio della mia volontà, e non consiste proprio in questo l’obbedienza filiale, come quando nel Getsemani lo stesso Gesù implora: “Padre, non la mia, ma la tua volontà sia fatta”? Il Padre non vuole tanto il dolore del Figlio, ma il suo amore elevato all’ennesima potenza, fino all’estremo, un amore che profuma di tenera obbedienza filiale. Non è dunque tanto la morte di Cristo che ci ha salvato, quanto la sua obbedienza d’amore fino alla morte.
Al termine di questi pochi pensieri resta una sola domanda, la domanda capitale: quale deve essere la nostra risposta a tanto amore?
Potrebbe essere la commozione, un sentimento alto e nobile, che dice un intimo, intenso coinvolgimento alla passione di Gesù. Ma la commozione non basta. Lo aveva detto lo stesso Gesù alle donne di Gerusalemme che lo seguivano sulla via della croce, si battevano il petto e facevano lamenti su di lui: “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. (…) Perché se si tratta così del legno verde, che avverrà del legno secco?” (Lc 23,27-31). Dunque la commozione non basta.
Un’altra reazione potrebbe essere la devozione, atteggiamento che indica una pia, affettuosa ammirazione, come quella che si nutre spontaneamente nei confronti di morti eroiche: si pensi ai martiri cristiani. Vengono in mente nomi, solo per farne alcuni, come Mons. Romero, ucciso mentre celebrava la messa, appena dopo aver detto: “Prendete, bevete: questo è il mio sangue, versato per voi e per tutti…”. O a Shabaz Batthi, ministro del governo pakistano, martirizzato “in odio alla fede”, cinque anni fa. O, ancora, ai 147 giovani studenti cristiani, crudelmente uccisi ieri in Kenia, per il solo fatto di essere cristiani. Ma neppure la devozione può bastare per esprimere la risposta della fede alla morte in croce di Gesù.
Resta la conversione, il cambiamento della vita: se hai incontrato Cristo, lui ti cambia la vita. Perché con Cristo o senza Cristo, cambia tutto. Allora onestamente ci dobbiamo chiedere: se – Dio non voglia! – dovesse scoppiare una sanguinosa persecuzione qui in casa nostra, avremmo prove schiaccianti e inconfutabili come testimonianze a nostro carico per meritare l’onore di essere condannati come autentici discepoli di Gesù, oppure rischieremmo di venire assolti per insufficienza di prove?
Ti contempliamo sulla croce, Gesù, Figlio di Dio:
le tue braccia spalancate, ci dicono che sei pronto ad abbracciare tutti e
ciascuno di noi, per prendere parte alle nostre penose debolezze e farti carico
delle nostre pesanti fragilità.
Ti contempliamo sulla croce, Gesù, Figlio di Maria: le tue mani aperte e sanguinanti
ci dicono che tu sei sempre disponibile a donare la tua tenerezza
e a ricevere in cambio i nostri mali: i nostri peccati e i nostri dolori.
Ti contempliamo sulla croce, Gesù, Agnello innocente: il tuo volto,
bagnato di sudore e di sangue, torturato dalla corona di spine,
sfigurato dallo spasimo dell’agonia, ci dice quanto è grande il tuo amore per noi,
quanto consolante la tua misericordia, e pacificante la tua compagnia.
Ti contempliamo sulla croce Gesù, nostro fedele Fratello: il tuo petto
squarciato dalla lancia ci dice quanto umile e dolce è il tuo cuore, sempre
aperto ad accogliere le nostre amarezze, per lavarci con il sangue del tuo
perdono, per rigenerarci a una vita nuova e pienamente umana.
Ti contempliamo sulla croce, Gesù, nostro Salvatore: i tuoi piedi
brutalmente maciullati dai chiodi sono sempre pronti a cercarci nei deserti
delle nostre solitudini, nelle nicchie dei nostri egoismi, sulle strade fangose
che spesso percorriamo, delusi e smarriti.
Abbi pietà di noi, Signore Gesù, e vieni, vieni a salvarci!
Rimini, Basilica Cattedrale, 3 aprile 2015
+ Francesco Lambiasi