Non temere ma ardire di sperare

Intervento del Vescovo all’Assemblea diocesana

Lo ricordiamo tutti: nei primi giorni della pandemia, sono cominciati ad apparire – da balconi, finestre, porte e portoni – simpatici cartelli, bandiere al vento e coloratissimi striscioni con uno slogan antivirus rassicurante, che sprizzava ottimismo e veicolava una calda ondata di contagiosa fiducia: “Andrà tutto bene!”. Debbo confessare che all’inizio quel messaggio, formulato con una espressione dal vago sapore pubblicitario, mi risvegliava più di qualche perplessità. Che però mi si è improvvisamente placata quando ho scoperto che sia papa Benedetto che papa Francesco ne avevano almeno indirettamente riferito la fonte.

L’autore ne sarebbe addirittura Gesù stesso durante un’apparizione alla beata Giuliana di Norwich, mistica inglese della fine del Medio Evo, la quale ne condensa così il messaggio ricevuto: “Imparai dalla grazia di Dio che dovevo saldamente e perfettamente credere che tutto sarebbe finito in beneAll shall be well”. Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta pur sempre di una rivelazione privata. In fondo quello slogan non fa forse eco a quanto ci dice la stessa Parola di Dio attraverso lo stesso san Paolo? “Tutto concorre al bene per quelli che amano Dio” (Rm 8, 28).

Sta di fatto che questa pandemia mi ha fortemente provocato a rifondare le ragioni della speranza che abita in me. Ed è quello che vorrei provare a raccontarvi in una sorta di breve confessione pubblica. Mi domando: ma come faccio a pensare che tutto andrà bene quando la pandemia fin dall’inizio ha mietuto in pochissimi mesi la bellezza di 45 milioni di contagiati nel mondo, per un totale di ben 1.175.553 morti. In Italia i casi di coronavirus hanno raggiunto in totale quota 589.766. I decessi, dall’inizio della pandemia, sono stati ad oggi 37.905.

Allora perché posso sperare? La ragione prima e ultima – con la quale o senza la quale sta o cade tutto l’edificio della speranza – è una sola: perché il Crocifisso è risorto. Questa non è per niente una fake-news, una bufala bella e buona. Non è una ingegnosa favola a lieto fine. Non è un vago mito anestetico. Né un sogno labile. E neppure una evanescente utopia. La nostra speranza non è agganciata alle nuvole, ma poggia su un fatto roccioso, per nulla friabile e irrimediabilmente franoso: Gesù di Nazaret, crocifisso, morto e sepolto, è risorto.

Al contrario, se Cristo non fosse risorto, allora non solo la mia fede sarebbe vana. Lo sarebbe anche la mia speranza. E la mia carità provocherebbe al massimo un illusorio, ma alla fin fine amaro e deludente, effetto-placebo. Mentre invece, se Cristo è risorto, allora il dolore non è l’ultima parola della mia vita, ma solo la penultima. Allora dopo la morte, c’è la vita per sempre. Allora dopo il venerdì di passione, c’è la domenica di risurrezione. E non solo ‘dopo’, perché la risurrezione è già in corso in questa vita. San Paolo ha scritto che se sperassimo qualcosa da Cristo soltanto per questa vita, saremmo da compiangere più di tutti gli uomini. Ma saremmo da commiserare anche se sperassimo in lui soltanto per l’altra vita! Se cioè la risurrezione non mi aiutasse fin d’ora, a vivere nella pace e nell’impegno di far vivere il mondo nella pace. Anche in tempo di pandemia.

Al contrario, se Cristo non fosse risorto, cosa sarebbe la nostra vita? cosa sarebbe questa nostra storia magnifica e drammatica? Non sarebbe né magnifica né drammatica. Ecco l’ultimo messaggio lasciato da un anonimo defunto dell’età imperiale nell’epitaffio inciso sul suo sarcofago: “Finalmente sono evaso e me ne sono fuggito. Speranza bella, ti saluto. Non ho più nulla da fare con te. Vai a prendere in giro qualche altro”. Messaggio spietato, ma inesorabilmente veritiero, da cui trasuda una cinica disperazione.

Al contrario, se Cristo non fosse risorto, non si potrebbe condividere questa affermazione di Etty Hillesum (1914-1943) nel suo Diario scritto nel lager: “Cosa credete, che non veda il filo spinato, i forni crematori, il dominio della morte? Sì, ma vedo anche uno spicchio di cielo e in questo spicchio che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza”.

Certo, noi cristiani non portiamo fette di prosciutto sui nostri occhi. E sappiamo bene di dover fare i conti con la realtà ‘reale’, obiettiva ed effettiva del cristiano. Già risuscitato e collocato nei cieli, eppure ancora chiamato alla speranza. Ma in un caso e nell’altro, all’origine c’è l’inaudito evento pasquale, che pone davanti agli occhi del battezzato la figura di Cristo, nel suo glorioso destino di trionfatore della morte. Per questo al cristiano è consentito di sperare. Per questo la speranza si può dire cristiana: perché è iniziata con Cristo, si nutre di Cristo, e assicura al cristiano una sorte analoga a quella di Cristo. Si comprende allora perché la Lettera agli Efesini identifichi i “senza Cristo” con i “senza speranza”.

Si comprende allora perché san Paolo arrivi a dire: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati” (Rm 8, 37). Gesù stesso, in una delle ore più dolenti della sua avventura terrena aveva assicurato ai suoi: “Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo” (Gv 16,33). Gesù è il vincitore in assoluto, il trionfatore fuori-serie, diventato anche la nostra testa di serie. Noi siamo legati in cordata con lui, e se attraverso la fede entriamo nella sua comunione vitale, stravinciamo anche noi per Cristo, con Cristo e in Cristo. Non nonostante sofferenze, tribolazioni e prove anche le più dolorose, amare e angoscianti, ma proprio nelle e attraverso le situazioni che appaiono le più disperate.

Il Risorto non ci ha lasciati soli. Continua ad essere presente, attivo e potente in mezzo a noi. Non si è reso latitante dai giorni incerti, inquieti e sofferti nei quali ci tocca vivere quaggiù. E ci aiuta a capovolgere ogni rischio in possibilità. Ogni situazione in opportunità. Ogni difficoltà in convenienza.

Il Signore “illumini gli occhi del nostro cuore per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità tra i santi, e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo” (Ef 1,18).

Abramo, padre dei credenti, “saldo nella speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18) ci aiuti a non vacillare nel nostro pellegrinaggio verso la nuova terra promessa.

Maria, madre dei credenti e “di speranza fontana vivace” ci sorregga, ci accompagni, ci protegga.

Rimini, Sala Manzoni, 30 novembre 2020

+ Francesco Lambiasi