Omelia tenuta dal Vescovo in Cattedrale per la “Messa dei Popoli”, 6 gennaio 2009
Tanti popoli, un solo popolo. Tante persone di colori e culture diverse, tutti fratelli, una sola famiglia. Non potrebbe esserci momento più indicato di questa festa dell’Epifania per celebrare l’incontro, nel nome di Cristo, unico nostro Capo e Salvatore, di tante sorelle e fratelli provenienti da varie parti del mondo e presenti qui a Rimini. Non potrebbe esserci luogo più significativo di questa cattedrale per dire la comune certezza che il battesimo ci ha reso tutti abitanti della stessa casa, la santa Chiesa del Signore Gesù. Oggi qui si compie la promessa fatta ad Abramo nostro padre nella fede: “In te saranno benedette tutte le genti della terra”. Oggi qui Cristo si presenta a noi come luce per illuminare le genti. Oggi qui il profeta dice alla nostra Chiesa riminese: “Alzati, rivestiti di luce, i tuoi figli vengono da lontano. Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te”. Oggi qui si svela il mistero della salvezza: che tutti siamo indistintamente “chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo”.
1. Queste ultime espressioni che ho appena citato, vengono dalla seconda lettura, tratta dalla Lettera agli Efesini. Qualche versetto prima s. Paolo aveva affermato: “Voi non siete più stranieri né ospiti”. Ecco il messaggio che il Signore mi ha messo in cuore per voi, sorelle e fratelli immigrati in terra di Rimini: “Voi non siete più stranieri né ospiti”.
Voi siete fratelli. Perché c’è un solo Dio, ed è il Padre di tutti, e perciò tutti, senza distinzione di pelle, di lingua, di ruolo, siamo fratelli. Il Bambino Gesù, riconosciuto e adorato dai santi Magi, venuti dal lontano oriente, si è fatto prossimo ad ogni uomo, ad ogni donna, per togliere alle nostre divisioni il segno meno (-) e sostituirlo con la sua croce, con il segno più (+). Scrive s. Paolo:
“Tutti voi siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,26-28).
Gesù è l’Emmanuele, il Dio con noi, venuto in mezzo a noi per far cadere tutti i muri, le barriere e gli steccati, per risolvere la lontananza in comunione, per sostituire l’emarginazione con l’accoglienza, per rovesciare l’estraniamento in familiarità, l’esclusione in vicinanza.
“Voi non siete più né stranieri né ospiti”: queste parole di s. Paolo non solo erano rivoluzionarie per i suoi tempi, ma sono scandalose ed eversive anche per i nostri. Sono una spada a doppio taglio che colpisce il corpo ecclesiale e quello sociale, ma sono anche salutari sia per la Chiesa che per la società civile. Alla luce di queste parole, proviamo a fare l’analisi etimologica del termine “extracomunitario”, con il quale ci si riferisce spesso all’immigrato straniero che vive in Italia. Non manca articolo di giornale che non usi questa parola; la si sente nei dibattiti televisivi, nelle conferenze, nei discorsi della gente. Ed anche coloro che di fatto sono “comunitari” vengono spesso gettati indistintamente tra gli “extracomunitari”. Come sappiamo – ma rischiamo di dimenticarlo – il termine “extracomunitario” era stato coniato quando ancora l’Europa era Comunità Europea, e poteva allora essere corretto per indicare lo stato civile di cittadini di Paesi Terzi, non appartenenti di fatto alla Comunità Europea. Ma ormai la Comunità Europea è diventata Unione Europea, per cui la dizione più corretta dovrebbe essere “cittadini non appartenenti all’Unione Europea”. Va inoltre ricordato che nel gergo comune il termine “extracomunitario” è stato fin da subito usato in modo intercambiabile con “africano” e “vu’ cumprà”. La riprova è che nessuno si sognerebbe di chiamare i cittadini degli USA o della Svizzera come “extracomunitari”.
Ma ciò che è più grave è il fatto che la parola nel suo significato letterale indica chi è posto “fuori della comunità”, e così nell’immaginario collettivo, evoca la figura di uno che è escluso dalla cerchia di persone che si conoscono e di cui si ha fiducia. Si dirà che non è il caso di fare questione di parole ma di fatti, ed è vero, ma fino ad un certo punto, perché le cattive parole trasportano cattivi pensieri e i cattivi pensieri scatenano cattivi sentimenti, orientano modi distorti di percepire la realtà, suscitano atteggiamenti negativi nell’interpretarla e nel costruirla. Di qui, una prima conclusione: “extracomunitario” è parola brutta e cattiva,da bandire dal vocabolario ecclesiale, ma anche da quello civile.
2. Ma è soprattutto da bandire la mentalità che quella brutta parola veicola, una mentalità discriminatoria, in stridente contraddizione con la fede in un solo battesimo. Un precedente interessante di tale superamento si trova nella Lettera di s. Paolo a Filemone. Lo schiavo di quest’ultimo, Onesimo, è fuggito dalla casa del padrone, che è cristiano, e si è incontrato con Paolo, prigioniero, che lo ha battezzato e quindi lo ha reso libero in Cristo. Paolo potrebbe tenerlo con sé, ma preferisce rimandarlo al padrone “non più però come schiavo (…) ma come un fratello carissimo, sia come uomo, sia come fratello nel Signore”. E’ la fede che fa la differenza: la schiavitù continuerà di fatto ad essere legalizzata nell’impero romano, ma il “vino nuovo” del vangelo e del suo messaggio di libertà comincia subito a spaccare gli otri vecchi della legge, e lentamente porterà all’abolizione legale della schiavitù. La logica evangelica con cui Paolo tratta il “caso-Onesimo” ci ricorda che noi cristiani abbiamo un compito profetico da svolgere nella nostra città. Dobbiamo anticipare il futuro cominciando nelle nostre case, nelle nostre imprese, nei nostri uffici a trattare da persone umane gli immigrati e se, sono battezzati, a trattarli da veri “fratelli nel Signore”.
Sì, a noi credenti è richiesto un supplemento di umanità e di carità cristiana. Provo ad esemplificare alcune piste di impegno.
Conoscere i fenomeni. Nel nostro territorio quanti sono, effettivamente, i lavavetri? Quante sono le badanti? Come vengono trattati gli immigrati? Certo, sappiamo che una significativa parte di loro ha problemi con la giustizia, ma sappiamo pure che nella stragrande maggioranza di casi si tratta di persone in posizione irregolare, e per di più condannate per reati di lieve entità. Siamo informati che gli immigrati regolari delinquono percentualmente meno degli italiani? Non è ora dunque di superare l’equazione “immigrato uguale criminale”? La questione sicurezza si deve porre, senz’altro, ma la si può e si deve porre innanzitutto sviluppando solidarietà e integrazione. Si deve allontanare la povertà, non i poveri.
Ricordare la nostra storia. Quando Dio, nel libro dell’Esodo, deve aiutare i figli di Israele a trattare con umanità e rispetto gli stranieri presenti sulla sua terra, ricorda loro: “Anche voi siete stati forestieri e schiavi in Egitto”. Anche il popolo italiano ha vissuto sulla sua pelle il fenomeno dell’emigrazione e della clandestinità. Tanti nostri connazionali sono stati immigrati clandestini negli USA, e questo non ha impedito loro di contribuire grandemente al Paese che li ha accolti e alla patria di origine. Ma ci sarebbe una domanda molto semplice che dovremmo farci: Cosa avverrebbe qui a Rimini se, ad esempio, le molte badanti immigrate domani mattina facessero le valigie e se ne tornassero in patria? E’ giusto allora continuare ad incasellare la questione nell’equazione “immigrati uguale problemi” e non principalmente “uguale risorse”?
Impegnarsi, per la parte che ci compete, per promuovere rispetto reciproco e responsabilità diffusa. Il problema dell’immigrazione non è solo politico; è prevalentemente educativo. Scuola, associazioni, famiglie, comunità cristiane debbono essere coinvolte per sviluppare tutte le energie possibili. Occorre creare comunità territoriali coese, capaci di relazioni positive, rafforzando e infittendo le reti di fiducia esistenti, in modo da far scendere la sindrome dell’insicurezza e da far salire il livello dell’integrazione.
Contribuire a rafforzare la credibilità e l’efficacia delle istituzioni. Nel suo intervento tenuto nell’incontro pre-natalizio con i politici e gli amministratori locali, il Direttore nazionale della Caritas italiana, mons. Vittorio Nozza, ha affermato testualmente:
“Se lo ‘stato’ in un quartiere periferico di una grande città è una scuola semidiroccata, servizi introvabili, inaccessibili e inesistenti, o una rara e fugace pattuglia di polizia, quale credibilità hanno eventuali pacchetti di sicurezza?”.
Dialogare, riconoscendo le differenze, senza scivolare nel relativismo, ma ascoltandosi reciprocamente, senza pregiudizi. Nel ricevere i partecipanti al Forum cattolico musulmano, tenutosi nello scorso novembre, papa Benedetto è andato oltre il tendere la mano e ha affermato testualmente: “Dio ci chiama a lavorare insieme per costruire un futuro comune”.
Ma c’è una cosa che noi Chiesa di Rimini non possiamo non assumere come nostra specifica missione nei confronti con voi, fratelli e sorelle di fede cattolica: ed è il condividere con voi il dono di questo grande tesoro comune a noi e a voi: la nostra fede. A noi tocca il compito di aprirvi le porte delle nostre comunità; ma voi non abbiate timore di inserirvi da protagonisti, per offrire la vostra testimonianza cristiana e la vostra generosa disponibilità ad assumere compiti, impegni e ministeri per fare di Cristo, tutti insieme, il cuore della città e del nostro territorio.
Che il Signore ci aiuti ad aiutarci reciprocamente nella carità!