Omelia tenuta al termine della Tre Giorni del Presbiterio
La comunità, a cui Matteo ha indirizzato il suo vangelo, era composta da cristiani provenienti dal giudaismo, e al suo interno era attraversata da una tensione scottante. Da una parte quelli che potremmo chiamare conservatori, si domandavano: se non rispettiamo la legge che Dio ha dato ai nostri padri, non rischiamo di tagliare l’albero del cristianesimo dalle radici di Israele? Ma un cristianesimo, orfano della tradizione giudaica, sarebbe ancora riconoscibile? Dall’altra parte gli innovatori ponevano la questione della ‘novità’ apportata da Gesù: se siamo ancora legati a Mosè e alle tradizioni dei padri, dove va a finire l’originalità cristiana? Il confronto era acceso e veniva esasperato dalla fatica di avvicinare i due versanti: mostrare la differenza fra il cristiano e il giudeo, da un lato, e dall’altro dimostrare la conformità del messaggio cristiano alle Scritture. Insomma si trattava di mettere insieme fedeltà e novità, continuità e originalità.
1. Per sciogliere un nodo così intrecciato, l’evangelista – con un deciso “ripartiamo da Gesù!” – ci riporta alla fonte: cosa ha detto e fatto il Maestro al riguardo? Succede sempre così: la comunità domanda, l’evangelista risponde. La comunità pone la questione – che cosa significa comportarsi da cristiani? – e l’evangelista non risponde con un trattato o una predica, ma raccontando una storia, la storia di Gesù: come si è comportato il nostro unico Maestro e Signore di fronte alla legge antica?
Matteo ha già inquadrato la roccia su cui poggia l’edificio morale della vita cristiana. A fondamento della legge nuova non c’è una complicata filosofia morale, una vaga utopia o una pallida costellazione di valori. C’è l’avvenimento che segna l’inizio di una storia nuova: l’annuncio del regno di Dio. Ricordiamo le prime parole di Gesù riportate dall’evangelista Matteo: “Il regno di Dio è vicino: convertitevi” (cfr Mt 4,17). Prima viene l’avvenimento, poi il comandamento. Prima risuona l’indicativo , poi l’imperativo. L’indicativo declina il dono di Dio agli uomini. L’imperativo traduce la risposta degli uomini al dono di Dio: “convertitevi!”. Prima viene la grazia, poi la legge.
Ed eccoci alla legge nuova che determina il codice di comportamento del cristiano. Rispetto a quella antica, Gesù si pone in atteggiamento di continuità e di superamento. Pretende di non essere venuto ad abolire, ma di portare a pieno compimento. Gesù censura una osservanza fredda e formale della legge, e ribadisce che la nuova “giustizia” – ossia il comportamento morale dei suoi discepoli – dovrà superare nettamente la teoria e la prassi di scribi e farisei. La superiorità che Gesù richiede ai suoi discepoli non va intesa nel senso della quantità e della severità – altre norme ancora, e ancora maggiore rigore – ma nella direzione della qualità. L’ambizione dei maestri del tempo era la fedeltà alla Legge. Di fatto scambiavano la fedeltà con la noiosa ripetizione di regole e divieti, e si ritenevano orgogliosamente attuali nella loro interpretazione. Ma in verità si perdevano in un ingarbugliato labirinto di precetti e proibizioni, e in una casistica fastidiosa e soffocante. Così avevano finito per insabbiare il significato dinamico della legge mosaica: la risposta all’invito divino di camminare nella libertà dell’amore.
In sintesi, l’antica legge dava sì la conoscenza del male, ma non la forza di compiere il bene. Pertanto al tempo di Gesù la legge era diventata un ginepraio di minuziose osservanze, motivo di presunzione per alcuni e di disperazione per altri. Invece la legge nuova, data da Gesù, consiste nell’imparare l’atteggiamento filiale del suo cuore e l’obbedienza filiale di cui ci ha dato testimonianza credibile ed esempio attraente.
2. In una parola – ci ricorda oggi Gesù – nella interpretazione della legge nuova Dio non può essere ridotto alla caricatura di un padrone che smania nella spasmodica ricerca di gloria per sé, né può essere scambiato in un accanito esattore di quelle ‘tasse morali’ che volenti o nolenti ci tocca pagare fino all’ultimo centesimo. No, ci ripete Gesù: Dio va pensato per quello che è veramente, come un padre che trova la sua gioia nella liberazione e gratificazione dei suoi figli.
Gesù non è la fine, bensì il fine della legge e dei profeti. Per questo non è per abolire la legge, ma per compierla in pienezza. E la Chiesa non annuncia la legge, bensì il Vangelo. Essa annuncia la buona notizia della giustizia eccedente ed eccessiva del Figlio, che ama come il Padre.
Chi non ama vede le norme come impossibili da osservare o come occasione per trasgredire. Chi ama compie liberamente tutto, ma non in forza della legge, bensì dell’amore. Perché “pienezza della legge è l’amore” (Rm 13,10).
Tutto si riconduce al cuore. La domanda che oggi ci deve pungere è la seguente: qual è il Dio che abita il mio cuore? E’ veramente il Dio rivelato da Gesù di Nazaret? Non ci potranno essere nella nostra vita frutti d’amore, se dentro di noi non sono piantati i semi della fede dal/nel Dio-Amore.
La nostra vita non sarà feconda se non sarà fecondata dall’Amore.
Rimini, Chiesa di san Fortunato, 9 giugno 2021
+ Francesco Lambiasi