La fede va proposta, non imposta
Omelia tenuta dal Vescovo nel corso della celebrazione eucaristica, al termine del Festival Francescano
1. Intolleranza zero. La Chiesa di Gesù di Nazaret non è una setta arcigna e scontrosa né una intransigente, preclusa casta elitaria.
“Non è dei nostri”. Ma chi sono i ‘nostri’? I discepoli di Gesù – i ‘suoi’ – hanno appena hanno visto un tale che, non facendo parte del gruppo dei Dodici, va in giro usando il nome di Cristo per scacciare i demoni. Ma come si permette? non hanno fatto bene Simone e compagni a proibirglielo? domanda Giovanni, inflessibile e petulante. I discepoli hanno coscienza di appartenere al piccolo gregge di Cristo, e hanno buone ragioni per pensarlo. Ma la loro visuale è rimpicciolita dai paraocchi del particolarismo più gretto, chiamiamolo pure con il suo giusto nome: settarismo. E si tradiscono, quando affermano: “Volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva“. Ecco l’abbaglio dei discepoli: si sono messi al posto del Maestro o comunque chiedono che quel tale, per accreditarsi come un autentico seguace di Gesù, debba seguire loro. Ora Gesù, certo, è e resta il Maestro dei Dodici, ma non è e non potrà mai essere il loro geloso monopolio. Infatti i cristiani sono solo di Cristo, ma Cristo non è solo dei cristiani. Ecco perché lo stesso Maestro che aveva detto un’altra volta: “Chi non è con me è contro di me”, questa volta risponde con altrettanta nettezza: “Chi non è contro di noi è per noi”.
Dunque intolleranza zero! Dunque disco rosso ad ogni esclusivismo fazioso e partigiano, che porta a dividere gli uomini in due categorie: i nostri, gli altri. Infatti lo Spirito di Cristo può operare e di fatto opera il bene anche oltre la cerchia di quanti appartengono visibilmente a lui, e quindi i discepoli del Signore non possono non rallegrarsi nel vedere anche i più piccoli germogli di bene, da qualsiasi parte provengano, perché in ultima analisi provengono da Dio stesso. Lo affermava anche s. Tommaso d’Aquino: ogni scintilla di verità, ogni frammento di bellezza, ogni germe di bontà “da qualsiasi parte provenga, viene ultimamente dallo Spirito Santo”.
Dunque no ad ogni forma di fondamentalismo, e alla nuvola nera dei suoi tristi sinonimi: integralismo, particolarismo, settarismo. La Chiesa è una casa aperta, non una nicchia sprangata né una serra riservata ai pochi “puri e duri”.
2. Oggi però bisogna francamente riconoscere che per noi, cristiani-cattolici dell’Occidente, il pericolo numero uno sembra quello opposto al fondamentalismo, ed è il relativismo: per noi è vera la nostra fede, per gli altri la loro. Così non pochi figli della Chiesa intendono il dialogo interreligioso come una trattativa diplomatica, come se la questione fosse semplicemente di stabilire rapporti di buon vicinato o di evitare reciproche interferenze o di scongiurare odiose invasioni di campo. Oggi occorre liberarsi da quella che papa Benedetto chiama “la dittatura del relativismo”: non è vero che una religione vale l’altra. La Chiesa nasce a Pentecoste con questa certezza irrinunciabile per ognuno che ne voglia far parte: “In nessun altro (all’infuori di Gesù Cristo) c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12). Pertanto “il dialogo deve essere sempre condotto e attuato con la convinzione che la Chiesa è la via ordinaria di salvezza e che solo essa possiede la pienezza dei mezzi di salvezza”, ha scritto Giovanni Paolo II.
Però, a pensarci bene, forse il discorso sulla situazione delle comunità cristiane oggi appare ancora più complesso. Se infatti il relativismo sembra connotare i rapporti ad extra della Chiesa – con i seguaci di altre religioni – il clima interno alla Chiesa sembra attraversato dalle correnti gelide di quello che si potrebbe chiamare una sorta di “campanilismo di gruppo”, che rende gli uni intolleranti, aspri e taglienti con i fratelli stessi di fede, ma appartenenti a un altro gruppo, diverso dal nostro.
3. Anche in questo campo dobbiamo tornare umilmente alla scuola di Francesco. Sappiamo che Francesco ha mandato i suoi discepoli in missione, ma non ad imporre la fede, perché sapeva bene che la fede non può essere imposta ma solo proposta, e dunque chiedeva ai suoi frati di annunciare il vangelo anche a persone di altra religione, senza mai vergognarsi del Vangelo. Non la spada, ma la croce: questo è l’ideale di Francesco, quale lui stesso ha seguito quando è andato in Oriente e ha incontrato il sultano Malek-el-Kamel. Questo è l’ideale che Francesco propone nella Regola non bollata, al cap. XVI: Di coloro che vanno tra i Saraceni e altri infedeli. Sono due i modi per fare evangelizzazione: “Un modo è che (i frati) non facciano liti né dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani”. L’altro modo è che “quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio, perché (gli infedeli) credano e si facciano battezzare”. Dunque né fondamentalismo né relativismo. Ma missione nel rispetto e nella tolleranza. Insomma è l’evangelicità la strada maestra per l’evangelizzazione: vivere evangelicamente per evangelizzare la vita; vivere il Vangelo della carità per annunciare la carità del Vangelo.
Ma questa carità evangelica va vissuta e annunciata prima di tutto ad intra, dentro la Chiesa. Vengono in mente due casi. Il primo è quello dei “preti poverelli” e peccatori, nei confronti dei quali Francesco nutre e proclama un sacro rispetto: “Non voglio in loro considerare il peccato, poiché in essi io riconosco il Figlio di Dio e sono miei signori” (FF 113). L’altro caso è costituito dal comportamento che il superiore deve avere nei confronti dei frati peccatori della sua fraternità. Per questo è sufficiente riprodurre la Lettera a un ministro: “E questo sia per te più che stare in romitorio. E io stesso riconoscerò che tu ami il Signore e se ami me servo suo e tuo, se farai questo e cioè che non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato quanto più poteva peccare, che dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne ritorni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede; e se non chiederà perdono chiedi tu a lui se vuol essere perdonato. E se comparisse davanti ai tuoi occhi mille volte, amalo più di me per questo, affinché tu lo possa conquistare al Signore e abbi sempre misericordia per questi frati” (FF 235).
Quanto a Chiara, la “pianticella del santo padre Francesco” – come lei stessa amava definirsi – anch’essa scrive nella sua Regola, ispirandosi chiaramente al suo maestro e modello: “L’abbadessa e le sue sorelle si guardino dall’adirarsi e turbarsi per il peccato di alcuna (sorella), perché l’ira e il turbamento impediscono la carità in se stessa e nelle altre” (FF 2802; cfr FF 18; 160). E quando i Saraceni vanno all’assalto di Assisi e arrivano fin dentro il chiostro di san Damiano, Chiara va loro incontro disarmata e li respinge pacificamente, con la sola forza della preghiera e del santissimo Sacramento. Questo mi fa pensare che se fosse vissuta ai nostri giorni, a proposito di talune tensioni che esplodono all’interno della Chiesa tra gruppi e movimenti, avrebbe detto con le parole di un’altra Chiara (Lubich): “Ama il gruppo dell’altro come il tuo”.
Preghiamo il Signore, per intercessione di san Francesco e santa Chiara, perché nell’imminente anno della fede, accenda nel nostro cuore il fuoco della missione e ci aiuti ad intraprendere l’opera della nuova evangelizzazione con un massimo di comunione tra di noi e con l’ardore della carità apostolica. Lo facciamo con le parole della liturgia: “Infondi in noi, Padre santo, la dolcezza del tuo amore, perché amandoti in ogni cosa e sopra ogni cosa, otteniamo i beni da te promessi che superano ogni desiderio”.
Rimini, Basilica Cattedrale, 30 settembre 2012
+ Francesco Lambiasi