Crocifisso per la sua debolezza, Risorto per la potenza di Dio
Tra le parole pronunciate dal nuovo vescovo di Roma nel suo magistero semplice e diretto, quella che forse ha registrato l’impatto più intenso sull’opinione pubblica e che senz’altro le riassume tutte è stata la parola tenerezza. Papa Francesco non ha avuto paura di attribuirla a Dio; anzi ne ha fatto il tratto più marcato del suo volto: Dio non solo prova tenerezza per le sue creature, ma è tutto amore, è tutta misericordia; è gratuita, toccante tenerezza. Questa parola papa Francesco continua a declinarla con gesti e atteggiamenti che valgono una enciclica.
1. Nel Dio della tenerezza noi riconosciamo il Dio dei nostri padri: di Abramo, Isacco, Giacobbe. Riconosciamo il Dio di Mosè, quale si rivela sul Sinai, nel roveto ardente: un Dio che non rimane freddo e ingessato di fronte alla miseria dei suoi figli, anzi dichiara apertamente: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi aguzzini: conosco le sue sofferenze” (Es 3,7). Quando poi Mosè, in marcia alla testa del popolo di Israele, torna sul Sinai, Dio gli si rivela parlando il linguaggio della tenerezza: “Il Signore, il Signore, Dio di tenerezza e di misericordia, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni” (Es 34,6s).
Certo, Dio non passa la spugna sul peccato; deve fare i conti con la miseria di Israele, “un popolo di dura cervice”, irriducibilmente ostinato e ribelle, ma la reazione di Dio è improntata alla più commossa e commovente compassione. “Come potrei abbandonarti – dice in uno struggente oracolo del profeta Osea -, come consegnarti ad altri, Israele? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione” (11,8). Letteralmente, dove si legge “il mio intimo”, dovremmo più esattamente tradurre “le mie viscere”, perché questo Dio, immaginato secondo il linguaggio antropomorfico come un padre, in realtà ha un ‘grembo’ materno. Ed è proprio all’immagine di Dio-madre, che si riferisce il grande Isaia, in un oracolo in cui, quasi scusandosi della sua debolezza, Dio si pone una domanda a risposta scontata: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai!” (49,15).
Ma nella lingua ‘materna’ di Dio, tenerezza fa rima con debolezza: è una commozione ‘viscerale’ per il niente della sua creatura il sentimento che rende Dio fragile e vulnerabile. Vedere la persona amata distruggersi con le proprie mani e non potere far nulla! Ne sa qualcosa il padre o la madre che vede il figliolo spegnersi giorno dopo giorno a causa della droga o dell’anoressia, e non poterne neanche parlare con lui, per paura di perderlo del tutto. Certo, Dio, che è onnipotente, potrebbe impedire tanto male, ma finendo per distruggere l’uomo, distruggendo la sua libertà, e quindi finendo per distruggere anche se stesso, perché Dio è amore, e dunque è ‘scrupolosamente’ rispettoso della nostra libertà.
2. Ma finché si restava nei soli confini dell’Antico Testamento non si poteva neanche lontanamente immaginare fin dove sarebbe arrivata la sofferenza di Dio per le sorti dell’umanità ferita dal peccato. Per scoprirlo e toccare con mano, c’era bisogno che questa misteriosa sofferenza prendesse volto e corpo nella passione di Cristo. La croce di Cristo è la suprema manifestazione della debolezza di Dio. Gesù – scrive Paolo – “fu crocifisso per la sua debolezza” (2Cor 13,4).
Di fronte alla croce i capi del popolo, i soldati, i malfattori crocifissi con lui, la gente che assiste a quell’orrendo spettacolo, tutti vomitano, con amari toni di scherno, l’oltraggio più beffardo: “Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso”. Paradossalmente, proprio dicendo che “non può salvare se stesso”, essi dicono la sua verità. E’ la verità di uno che non può più salvare se stesso, non perché non ne abbia il potere, ma perché vi ha liberamente rinunciato per amore. La croce sta a dire che gli uomini hanno vinto Dio, ma Dio si è preso la rivincita risuscitando Gesù: Cristo fu crocifisso per la sua debolezza, “ma vive per la potenza di Dio” (2Cor 13,4), perché “ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 18,25). Alla volontà dell’uomo di annientarlo, Dio ha risposto con altrettanta volontà non di distruggere l’uomo, ma di salvarlo: “Io sono il vivente: non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva” (Ez 33,11). Dio ha vinto senza smentire la logica della debolezza, senza lasciarsi trascinare sul terreno del nemico: il Crocifisso “oltraggiato, non rispondeva con oltraggi” (1Pt 2,23). Al grido della ferocia: “Crocifiggilo!”, ha risposto con il grido della misericordia: “Padre, perdonali!” (Lc 23,34).
E il Padre ha stravinto sulla malvagità umana non incenerendo i mandanti e i carnefici del Figlio, ma riconciliando a sé l’umanità malvagia. Scrive san Paolo: “Quando eravamo ancora nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo” (Rm 6,10). “Quando eravamo ancora nemici”: Dio non ha preteso il ravvedimento dei suoi figli per riconciliarsi con loro; ma li ha portati al ravvedimento attraverso un amore totalmente gratuito, attraverso la misericordia e il perdono.
Il vangelo della Pasqua è il vangelo della tenerezza. Gesù che aveva additato il Padre come modello di misericordia, chiede la misericordia ai suoi discepoli: “Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,43-46). Quanto Cristo chiede (e dona!) ai suoi discepoli, supera ogni logica umana. Non vendicarsi – passi pure! – ma addirittura ‘amare’ i nemici, ‘pregare’ per loro! Questo, per ogni sia pure più illuminata ragione, è troppo. Davvero troppo!
3. Rispetto alla generazione del ’68 – una società ‘contro’ i padri – oggi viviamo in una società ‘senza’ più padri. Purtroppo ciò avviene quando si annebbia la certezza di Dio Padre, di tutti. Ma un mondo senza Padre diventa uno sconfinato, squallido orfanotrofio. La rivoluzione francese nel suo celebre trinomio, oltre alla liberté e alla égalité, aveva incluso anche la fraternité. Ma quale autentica ed effettiva fraternità è possibile, quando Dio viene scambiato con un destino cieco e dispotico, con un caso volubile e capriccioso? Quanto non è solida ma paurosamente friabile la base di una qualche ‘laica’ solidarietà o di una qualche algida filantropia?! Se non c’è un Padre comune, perché mai dovremmo chiamarci e sentirci tutti fratelli? E se non siamo fratelli, quale vincolo può tenerci saldamente uniti, se non l’interesse o l’utile di alcuni contro gli altri? E non si scatena allora la guerra di tutti contro tutti?
Quando Gesù è morto, si è squarciato il velo del tempio, simbolo di quel velo che copriva il volto di Dio, e così nel Figlio, fatto tutto tenerezza e misericordia, abbiamo contemplato il volto del Padre “ricco di misericordia”, che ci consola con ogni consolazione in ogni nostra sofferenza, angoscia e tribolazione.
Lo scenario sociale, culturale e politico – quest’ultimo, davvero indecente e indicibile, di questi tempi tanto duri e bui – appare sempre più ispirato al detto medievale, poi ripreso e teorizzato dal Machiavelli: Mors tua vita mea. La cinica menzogna di questo slogan viene oggi sdoganata con parole impure e agghiaccianti: sospetto, opportunismo, disprezzo, aggressione, volgarità. La logica evangelica è diametralmente opposta: Mors mea vita tua. Non c’è logica più umana di questa. E’ la logica che ha consentito al nostro paese di uscire dalla guerra e di darsi una carta costituzionale, fondata su valori che i nostri padri ritenevano intramontabili, mentre noi ci vediamo costretti ad assistere impotenti alla loro penosa, irreversibile agonia. E sono valori maiuscoli: fiducia, lealtà, rispetto, cooperazione, responsabilità.
Questa è la lingua di Francesco d’Assisi, di papa Francesco: è la stessa lingua parlata in vita, in morte e nella sua vita risorta dallo stesso Gesù. Noi tutti, rivolgendoci al Crocifisso-Risorto, possiamo gridare: Mors tua, vita nostra. Sì, la sua morte è la nostra vita: lo è stata e lo sarà ancora. Perché là dove ognuno dice all’altro: “prima tu, poi io”, là finisce la morte, germoglia la vita, fiorisce il ‘noi’.
Ed esplode, irrefrenabile, la gioia della Pasqua.
Rimini, Basilica Cattedrale, 31 marzo 2013
+ Francesco Lambiasi