Omelia tenuta dal Vescovo, al termine del Convegno su “Don Oreste Benzi, testimone e profeta”
A tutti sarà capitato di contemplare almeno qualche volta il rosone di una cattedrale gotica. Se, visto di fuori, ci appare solo come un grande tondo fatto di pezzi di vetro saldati con strisce di piombo, una volta entrati nella cattedrale e visto in controluce il rosone ci si mostra in tutto il suo splendore. Un santo – inteso come un autentico testimone della fede – è un po’ così. Per contemplarne l’immagine incantevole, lo dobbiamo guardare in sovrapposizione verso la parte da cui proviene la luce del vangelo. Proviamo allora a inquadrare Don Oreste leggendolo in controluce sul vangelo di oggi.
1. E’ il vangelo di Bartimeo, il cieco mendicante, seduto sulla Gerico-Gerusalemme. “Lungo la strada” della vita, mendichiamo, mentre i nostri occhi spenti invocano pietà. Ci scivola talvolta, nella mano brancolante, qualche rara elemosina che non riesce a sfamarci. Chiediamo un senso alla vita, una risposta al dolore, un perché alla morte, e annaspiamo nel buio più fitto. Allora cominciamo a gridare. E intorno a noi, tanti cominciano a zittirci: cosa mai cerchiamo? nessuno ci considera, ci sono cose più urgenti, e di noi non importa niente a nessuno. Se ci ascoltasse un Gesù misericordioso! Ma sì, lui ci ha già sentiti e ci chiama, e ci fa arrivare il messaggio insperato: “Coraggio, alzati, ti chiama”.
Ecco la lieta notizia che Don Oreste ha recapitato a tanta povera gente. Sulla Gerico-Gerusalemme degli emarginati, dei poveri, dei disabili, dei nomadi, delle prostitute, dei cercatori di Dio, dei mendicanti di luce, Don Oreste è passato e ripassato infinite volte, e ogni volta a captare anche l’urlo represso, anche il grido più flebile, anche il pianto più strozzato, come quello dei bimbi non nati, mentre tanti di noi hanno cercato di soffocarlo, o hanno fatto finta di non sentirlo. Il Don invece si è esposto al gemito di quelli che non contano e lo ha fedelmente riportato al suo dolcissimo Signore. E Gesù lo ha incaricato di andare a riferire il consolante messaggio: “Coraggio, alzati, ti chiama”. Tre parole divine, le uniche capaci di risuscitare una vita spenta. “Coraggio”: quante volte l’abbiamo incontrata, questa parola, lungo la Bibbia, in bocca a Dio. Coraggio, Abramo; non temere Mosè; non temere Davide; non temere Israele… E’ una parola che attraversa il valico tra i due Testamenti e tracima nel vangelo. Non temere, Maria; non temere, Pietro; non temere, piccolo gregge. E poi, la seconda parola: “Alzati!”: è il verbo della risurrezione, che potremmo tradurre: Risorgi! Così il nostro Bartimeo passa da uomo seduto e spento a uomo risorto e rimesso in piedi, riabilitato a camminare. “Ti chiama”: lui pronuncia il tuo nome, perché per i suoi occhi di luce nulla è più importante dei tuoi occhi bui che invocano pietà.
Quante volte Don Oreste ha declinato questo messaggio di salvezza e di vita nuova. Eccone una minuscola antologia. “Quando vedo il povero disarmato, quel tipo di povero che è talmente cosciente di essere povero che quasi ti chiede scusa di esistere, io, don Oreste, in quel momento non vedo altro se non Dio”.
Diceva ancora: “Quando un povero ti chiede un pezzo di pane o un caffè, tu non ti limitare a darglielo. Mangia quel pezzo di pane o prendi quel caffè insieme con lui”. Questo era il suo metodo! Un giorno, a Roma, il Don vede due poveri davanti a un bar: uno mandava un tanfo terribile (lui lo chiamava il ‘profumo degli angeli’), l’altro era un po’ più distinto. Il Don dice a quello che spargeva il profumino angelico: “Venga con me che andiamo a prendere qualcosa”. La signora del bar ha storto un po’ il naso, però l’ha accolto e servito. Poi anche l’altro – quello più distinto – ha fatto un po’ più di fatica ad accettare, ma piano piano il Don l’ha accompagnato dentro al bar e tutti e tre hanno consumato qualcosa insieme. Era lo stile del Don con i poveri: non ‘dare’, ma ‘condividere’. Un conto è la società dell’elemosina, un conto è ‘la società del gratuito’. Diceva il Don: “La condivisione contiene in sé la giustizia più piena”.
Ha scritto: “C’è differenza tra servizio e condivisione. Il servizio chiede la prestazione, la condivisione chiede l’appartenenza. Il povero che incontri è un cuore da capire, non è uno stomaco da riempire. Se lo tratterai come uno stomaco affamato in cui getti pastasciutta e carne arrostita, un giorno te la vomiterà. Il povero è una persona con doni stupendi che porta con sé, con una missione da compiere. Il povero attende la tua mano prima che tu gli getti addosso un vestito usato. Se tu lo tratti come un manichino su cui gettare dei vestiti più o meno logori, un giorno te li tirerà addosso con violenza, rifiutando la tua persona. Egli vuole che tu gli chieda perdono perché tu hai tutto: lui è stato derubato di tutto da quella società che a te ha dato tanto da permetterti di dare le briciole a lui, ferendolo nella sua dignità, umiliandolo. Fermati con il barbone lungo le strade: parlagli prima di aprire il portafoglio. Mettiti in dialogo con il lavavetri, non vederlo come uno scocciatore, parlagli nella sua umiliazione e capirà”.
Forse la strategia di Don Oreste – la sua teologia e la sua pastorale con i poveri – si può riassumere così: Tutti per i poveri. Molti con i poveri. Alcuni da poveri.
Tutti vivano per i poveri: tutto – la cultura, l’educazione, la politica, l’economia – deve essere condotto e orientato nella direzione dell’aiuto ai poveri. I poveri devono essere tenuti costantemente presenti, mai dimenticati; sempre rispettati, mai strumentalizzati. Come diceva don Milani: “Fare strada ai poveri, senza farsi strada”. E tutti a servizio dei poveri: “I poveri sono i miei maestri”, diceva Don Oreste.
Molti con i poveri: molti devono vivere più direttamente la solidarietà con i poveri, mettersi dalla loro parte e camminare con loro, perché siano i protagonisti della loro liberazione, attraverso la coscientizzazione della loro dignità, dei loro diritti e doveri.
Alcuni da poveri: è la testimonianza della condivisione della stessa vita. L’esperimentare nella propria carne le sofferenze, le umiliazioni, le insicurezze, le rivolte dei poveri, per imparare quali siano i loro veri bisogni, le loro attese, le loro potenzialità, la nostra scarsa capacità di capirli. Don Oreste è vissuto da povero per aiutare molti a stare con i poveri e tutti a vivere per i poveri.
2. Ma nel brano di vangelo di Bartimeo c’è l’altro immancabile protagonista: Gesù. Don Oreste si è sentito chiamato non solo a parlare ai poveri di Gesù e a Gesù dei poveri, ma a diventare un altro Gesù per loro e con loro.
Ha scritto il filosofo cristiano S. Kierkegaard: “Dopo la mia morte non si troverà nelle mie carte una sola spiegazione di ciò che in verità ha riempito la mia vita. Non si troverà nei recessi della mia anima quel testo che spiega tutto e spesso di ciò che il mondo tiene per bagattelle, fa degli avvenimenti di enorme importanza per me” (Diario, IV A, 85). Non si può dire la stessa cosa di Don Benzi. La spiegazione di ciò che ha riempito la sua vita, la parola che spiega tutto di lui, esiste ed è chiarissima; si tratta solo di raccoglierla. Il terreno, la radice e l’albero, per il Don è la persona di Gesù Cristo! Gesù è tutto per lui. Come san Paolo, Don Oreste ha potuto dire: “Per me vivere è Cristo” e “Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me” (Fil 1,21; Gal 2,20). Come Francesco d’Assisi, Don Oreste non si è innamorato della povertà, ma di Cristo che, “pur essendo ricco, si è fatto povero per noi” (2Cor 8,9). Infatti non ci si innamora di una virtù, fosse pure la povertà; ci si innamora di una persona. Questa è la profezia di Don Oreste!
Diceva: “Il Signore non vuole tanto dei facchini che sgobbano per lui, ma vuole degli innamorati che agiscano e vivano per lui, con lui e in lui”. E ancora: “Gesù è tutto per noi, e per lui abbiamo lasciato tutto, abbiamo lasciato perfino noi stessi. Il nostro io immerso in Dio ci fa diventare davvero noi stessi”. Un Don Oreste senza questo legame tenace e inseparabile da Gesù sarebbe del tutto irriconoscibile.
Chissà se è soltanto una coincidenza che la strada che oggi Gesù percorre salendo da Gerico a Gerusalemme, sia la stessa della parabola del comandamento supremo dell’amore, quella percorsa in discesa da Gerusalemme a Gerico da un uomo che “incappò nei briganti” e da un samaritano che “lo vide e ne ebbe compassione”.
Fratelli e Sorelle, lasciamoci prendere per mano da Don Oreste, e come il cieco guarito, seguiamo Gesù che va incontro alla croce. “Se moriamo con lui, con lui risorgeremo”, e scenderemo per la Gerusalemme-Gerico, là dove tanti Bartimei e tanti Samaritani attendono altri don Benzi per poter risorgere anche loro.
+ Francesco Lambiasi
Rimini, 105 Stadium, 27 ottobre 2012