Omelia tenuta dal Vescovo in occasione della Messa per l’apertura del Meeting – Rimini, 20 agosto 2012
Siamo mendicanti. Nella Pentecoste 1998 Don Giussani in una piazza san Pietro stracolma di fedeli di tutti i vari movimenti ecclesiali, affermava: “Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo”.
Siamo mendicanti, non siamo vagabondi, anche se spesso ci smarriamo erranti e confusi. Ci è assegnata una meta, ci è stata tracciata una strada. La meta è la santa casa del Padre, il santuario della santa Trinità. La strada non è una astratta ideologia, una formula vaga, un valore pur nobile, ma impalpabile. E’ l’umanità reale e tangibile – che cioè si può vedere, odorare, abbracciare – di Colui che ha detto: “Io sono la via”.
Non siamo vagabondi condannati a girovagare a vuoto. Siamo chiamati a diventare pellegrini, ma restiamo mendicanti affamati e insoddisfatti. Abbiamo fame – una fame assillante, struggente – di vita, di infinito. Abbiamo fame di una vita infinita: infinitamente felice, sconfinata, immortale. Questa, che ci è data, ci pare troppo corta, troppo dura, troppo sofferta: la vita dei nostri affetti e dei nostri bisogni, del nostro lavoro e di qualche festa, del nostro riso e del nostro pianto.
Oggi, in un solo versetto, il vangelo ci consegna la chiave della vita, quella eterna, sovrumana, e perciò pienamente umana: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. In appena due righe ci viene fornita la grammatica di base del vivere da umani, con un sostantivo: la vita, appunto, intesa nella sua accezione più alta, più larga e profonda: la “vita del mondo” (v. 51); con un aggettivo (il pane “vivo”); con un verbo: “vivrà in eterno” (v. 51). Da evidenziare anche una preposizione: “per”. “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Il pane disceso dal cielo, come tale, preesiste alla nostra fame e ha come unico scopo quello della vita dell’umanità di tutti i luoghi, di tutti i tempi. La pre-esistenza della Parola (il Verbo del Padre) si fa pro-esistenza: la Parola si è fatta carne per noi, per la vita del mondo. Il pane che tiene in vita il mondo è lo stesso che mantiene in via il pellegrino: è il suo viatico.
Sono varie domeniche che ascoltiamo Cristo martellare con ostinata insistenza su questo tema del pane vivo. Ma oggi il brano comincia con lo stesso versetto che chiudeva il vangelo di domenica scorsa: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo”. Questo versetto registra la “svolta eucaristica”, che fa da spartiacque tra la storia precedente di Gesù e quella successiva: la sua incarnazione, anzitutto. L’espressione si trova già nel prologo del quarto vangelo: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Dio diventa “pane” per noi facendosi uno di noi, entrando nella nostra storia, fatta di spazio e di tempo, di orizzonti sterminati e di piccoli passi, fatta di polvere di Infinito impastata di fragile argilla. Così l’uomo può entrare nella sfera di Dio, nella comunione con lui, attraverso la carne del Signore; e ciò contro ogni interpretazione spiritualista della sua incarnazione.
Ma nel contempo il “pane” rimanda alla sua passione futura: al suo sacrificio “per” la vita del mondo. Ora il pane non è più soltanto da accogliere nella fede; ma nella fede, è carne da mangiare, è sangue da bere. Qui il linguaggio si fa crudo e scandaloso, il tono ardito, destabilizzante: “Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita”. La condizione è tassativa, senza appello: “se non mangiate… non avete”. E’ questione di vita o di morte.
L’uomo è un animale che assimila a sé le cose che mangia, ma quando mangia la carne di Cristo, è Cristo che assimila l’uomo a sé. “Partecipare al corpo e al sangue di Cristo non tende ad altro che a trasformarci in quello che riceviamo” (Leone Magno). Qualcuno aveva detto: “L’uomo è ciò che mangia”, ma ha sbagliato il primo verbo della proposizione: non “è”, ma “diventa”. Se mangia Cristo, diventa un altro Cristo. Con san Paolo posso dire: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Il Figlio di Dio ci ha amati fino a farsi divorare dal suo amore per noi; noi, amando e mangiando lui, diventiamo figli di Dio.
Questo è Gesù: un Dio che non dice: “datemi, sacrificatevi per la mia causa toglietevi il pane di bocca per me”, ma dice: “prendetemi, mangiatemi, bevetemi”. Soeren Kierkegaard vi scorgeva la prova suprema della più bella storia d’amore: “Ogni altro modo di rivelarsi sarebbe, per l’amore, un inganno”.
La vita eterna consiste nel vivere da figli, amando il Padre e i fratelli, con un amore più forte della morte. Questo amore è pegno di risurrezione nell’ultimo giorno: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli” (1Gv 3,14a). Infatti, se è vero che “chi non ama rimane nella morte” (1Gv 3,14b), è altrettanto vero che chi ama non rimane nella morte, perché dimora in Gesù e Gesù in lui.
Ma “si può vivere così?”, si chiedeva con stupore intriso di intensa commozione Don Giussani.
Siamo mendicanti di cielo, affamati di Cristo, assetati di Dio. Non siamo noi i fornitori del pane che ci sazia la fame del cuore né i produttori del vino che ci estingue la sete bruciante di Infinito. Siamo pellegrini, invitati a mangiare il pane disceso dal cielo per diventare a nostra volta pane per la vita dei fratelli.
Siamo mendicanti, sfamati e mandati a dire ad altri mendicanti, dove insieme possiamo trovare da mangiare.
Questa è vita vera ed eterna. Questa è perfetta letizia.
+ Francesco Lambiasi