Una fede protagonista di storia
Omelia tenuta nel corso della s. Messa per anniversario don Giussani.
E’ un grido di stupore quello che erompe irrefrenabile dal cuore di Elisabetta, nello scorgere il profilo di Maria – questa ragazzina già proiettata “nella stagione in cui lievita il ventre” (De André) – stagliarsi in controluce sulla soglia di casa: “A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?”. L’evangelista ci ha poi raccontato che, appena sentito l’allegro sobbalzo del bambino nel suo grembo ed aver provato l’ebbrezza dello Spirito Santo, l’anziana sposa di Zaccaria è esplosa in una incontenibile proclamazione di felicità: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. Quando noi sentiamo pronunciare la parola ‘beato-beati’, inevitabilmente pensiamo a quella litania di beatitudini proclamate da Gesù nel Discorso della montagna. Ma nel vangelo della visitazione, san Luca ci ha appena riportato dalle labbra di Elisabetta la prima beatitudine – proprio la prima in assoluto – di tutto il Nuovo Testamento. Non riguarda i poveri, i costruttori di pace, i puri di cuore, gli affamati e assetati della giustizia, ma è semplicemente indirizzata a Maria, proclamata beata per aver creduto nella promessa del Signore. E’ con lei che ha avuto inizio la storia della fede sulla terra.
1. Carissimi Fratelli e Sorelle di Comunione e Liberazione, in quest’anno della fede la celebrazione in memoria di don Giussani ricorre nel giorno della Madonna di Lourdes. E’ una felice concomitanza, poiché ci offre l’opportunità di specchiarci in Maria, la prima credente, modello e sostegno della nostra fede. Sulla traccia di papa Benedetto, possiamo dire: “Per fede Maria accolse la parola dell’Angelo e credette all’annuncio che sarebbe divenuta Madre di Dio. Per fede Maria, visitando Elisabetta innalzò il suo canto di lode all’Altissimo per le meraviglie che compiva in quanti si affidano a Lui. Per fede Maria, con gioia e trepidazione diede alla luce il suo unico Figlio. Per fede Maria, confidando in Giuseppe suo sposo, portò Gesù in Egitto per salvarlo dalla persecuzione di Erode. Con la stessa fede Maria seguì il Signore nella sua predicazione e rimase con Lui fin sul Golgota. Con fede Maria assaporò i frutti della risurrezione di Gesù e, custodendo ogni ricordo nel suo cuore, lo trasmise ai Dodici riuniti con lei nel Cenacolo per ricevere lo Spirito Santo” (cfr Porta fidei, n. 13).
Si è riferito a questa pagina evangelica della visitazione Don Giussani per parlare della bellezza della fede, ed ecco un suo passaggio che mi sono appuntato:
“La grandezza dell’uomo è nella fede, è nel riconoscere la grande Presenza dentro una realtà umana. La fede come riconoscimento della Presenza dentro il nulla, la pochezza, l’umiltà di una cosa creata, di un avvenimento storico, della vita di una giovane donna: è questa fede che diventa protagonista della storia” (La familiarità con Cristo, p. 156).
Una fede protagonista di storia. Ma quando la fede è veramente così? Per rispondere, dobbiamo prendere di petto una domanda ulteriore: che posto occupa Gesù di Nazaret nella nostra società e nella nostra cultura? In modo sintetico possiamo parlare di una presenza-assenza di Cristo. Nel mondo dello spettacolo, dell’editoria e dei mass-media in generale, Gesù sembra molto presente, addirittura si potrebbe parlare di lui come di una “superstar”. Basti vedere la serie interminabile di romanzi, di studi, di film che parlano di Gesù, per concludere che il fenomeno va ancora di moda, che la sua vicenda “tira ancora”. Ma si tratta di un Gesù “commerciale”, appositamente manipolato per “fare cassetta”, e deformato a tal punto da rispecchiare tutte le debolezze e le fragilità -addirittura i difetti e i vizi – di ‘produttori’ e ‘clienti’.
Ma ciò che appare più inquietante è l’assenza di Cristo nella fede di quanti oggi in Europa si definiscono ‘credenti’. Infatti in che cosa crede tanta gente che pur si dice cristiana? Crede in un Qualcosa o Qualcuno, che “ci dovrà pur essere – si dice – da qualche parte”. Ma questa non è la vera fede cristiana. Si ripete insomma, su scala mondiale, quello che avvenne nell’Areopago di Atene: finché Paolo parlò del “Dio che ha fatto il mondo” e del quale “stirpe noi siamo”, i membri dell’Intellighenzia ateniese lo ascoltarono con discreto interesse. Ma quando l’Apostolo cominciò a parlare di Gesù Cristo “risuscitato dai morti”, risposero con un politically correct “ti sentiremo su questo un’altra volta” (At 17,22-32). Basta una scorsa anche sommaria al Nuovo Testamento per capire quanto siamo lontani dal significato originale che la parola fede ricopre nel vocabolario cristiano. Per Paolo la fede che salva non è una vaga credenza in un valore general generico – la pace, la giustizia, l’amore – ma è la fede nella persona di Gesù Cristo, nell’evento della sua morte e risurrezione. Così pure per Giovanni, il quale piazza al riguardo una domanda decisiva: “Chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?” (1Gv 5,5).
2. No, non è mai esistito un cristianesimo del puro e semplice “vogliamoci bene” o del banale “facciamo l’amore, non facciamo la guerra”. Un cristianesimo senza Cristo sarebbe come un sistema solare senza sole. Quando Paolo evangelizzava ebrei o pagani, si rifaceva a una tradizione comune che circolava all’interno delle prime comunità cristiane ed era strutturata da due componenti fisse: una componente chiamata “annuncio” o kerygma – che proclama l’avvenimento: ciò che Dio ha operato in Gesù di Nazaret, risuscitandolo – e una componente chiamata “insegnamento” o didaché, che presenta il comportamento del cristiano, la ricaduta etica o morale del kerygma nella vita dei credenti. Questa bipartizione si rispecchia in varie lettere paoline che contengono una prima parte kerygmatica, dalla quale discende una seconda parte di carattere parenetico o pratico. Ora, un cristianesimo senza kerygma sarebbe come un albero senza radici. Detto sempre con linguaggio metaforico: voler fondare una fede senza basarla sulla roccia del primo annuncio sarebbe come voler costruire una casa sulla sabbia o pretendere di fondare un grattacielo sull’asfalto o sognare di far scorrere un fiume amputandolo dalla sua sorgente.
Il Papa non si stanca di stimolarci nella riscoperta del primo annuncio:
“Capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggiore preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato. Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone” (Porta fidei, n. 2).
Il nucleo più semplice ed efficace per concentrare tutto il messaggio cristiano è la formula “Gesù è risorto!”, oppure “Gesù è il Signore!” (Rm 10,9). Scriveva Péguy: “Come la scia di un vascello va allargandosi fino a sparire e a perdersi, ma comincia con una punta che è la punta stessa del vascello”, così la predicazione della Chiesa va allargandosi, fino a costituire un immenso edificio dottrinale, ma comincia con una punta e questa punta è il kerygma: “Gesù è risorto! Gesù è il Signore!”.
3. E’ giunta l’ora, carissimi, della riscoperta del kerygma. Tale riscoperta impegna innanzitutto noi pastori, più formati dal nostro passato ad essere appunto “pastori” che a diventare “pescatori di uomini”. E’ vero: siamo meglio attrezzati a nutrire la gente che viene in chiesa che a portare persone nuove alla Chiesa o a ripescare quanti se ne sono allontanati e ne vivono ai margini. Ma per questo – perché il primo annuncio risuoni almeno una volta nella vita dei cristiani – dobbiamo riaprire il cantiere del catecumenato, dal momento che la maggioranza dei credenti di oggi non ha avuto l’occasione per rinnovare il proprio battesimo. Insomma tanta gente non è passata attraverso la porta della conversione e non ha mai fatto una scelta consapevole e responsabile di Cristo come Signore della propria vita.
Coglieva nel segno Don Giussani quando affermava: “O Cristo o il niente”, e chiariva:
“Non c’è alternativa tra Cristo risorto e la decadenza totale verso il niente, verso la fermentazione che uccide, àltera e uccide. (…) Tutto appartiene a me con quel sollievo e quel riposo che mi dà la percezione del punto di fuga che è in tutto e che raccorda tutto e ogni cosa al Destino ultimo, al Mistero ultimo che si è svelato in tutta la sua potenza e misericordia e giustizia: Cristo risorto. (…) Ma questo è ciò per cui ci svegliamo oramai tutte le mattine: è un orizzonte e un destino, un’intensità di vibrazione, è un vivere e un possedere, perché si è posseduti. (…) Ciò da cui tutto parte è l’essere posseduti da Cristo risorto, immersi nel grande Mistero” (ivi, pp. 95s).
Fratelli e Sorelle di CL, in questo anno della fede siamo tutti chiamati a rinnovare la grazia del nostro battesimo. Se vogliamo fare di Cristo il cuore della nostra società e del mondo intero, dobbiamo riscegliere Gesù come Signore della nostra vita. Confessare che “Gesù è il Signore!” significa decidere che Gesù sia il mio Signore. Significa riconoscergli ogni diritto su di me, su ogni zona del mio essere, su ogni affetto del mio cuore, su ogni particella del mio corpo, su ogni frammento del mio tempo. Significa cedergli il timone della mia barca. Significa non vivere più “per me stesso” ma “per lui che è morto e risorto per me” (cfr 2Cor 5,15). Confessare che “Gesù è il Signore” significa che non sono io il padre-padrone del mio io. Significa credere che Gesù non toglie nulla, ma dona tutto. Significa che il Padre suo non vuole essere subìto come il faraone invasore della mia vita, ma vuole essere amato come l’instancabile promotore della mia libertà.
Questa è la fede che vince il mondo. E’ come quella di Maria: una fede “protagonista di storia”.
Rimini, Basilica Cattedrale, 11 febbraio 2013, Memoria della Madonna di Lourdes
+ Francesco Lambiasi