Saluto del Vescovo al Congresso provinciale di ConfCooperative
Se è vero che “non c’è migliore pratica di una buona teoria” (Lonergan), è altrettanto vero che il discorso teorico sulle cooperative sociali, per coglierne lo spirito più originale e autentico, si può concentrare su tre C: cooperazione, comunità, condivisione. E’ un trinomio i cui fattori moltiplicati tra di loro danno un prodotto garantito, lo sviluppo. Lo conferma un passaggio della Caritas in veritate: “La cooperazione allo sviluppo non deve riguardare la sola dimensione economica; essa deve diventare una grande occasione di incontro culturale e umano” (n. 59).
Oggi la nostra società si presenta estremamente sfilacciata, visto il preoccupante indebolimento dei legami sociali. Non ne esistono più di indissolubili. Il progressivo sostituirsi del rapporto di coppia al matrimonio tradizionale è un sintomo tra i tanti di questo fenomeno. Al massimo, e sempre più spesso, si potrebbe parlare di semplice coesistenza, più che di comunità. L’individuo vive affianco agli altri, ma non si può parlare di vera “con-vivenza” nel senso di una vera “con-vivialità” delle differenze. L’individuo coesiste con gli altri, mantenendo nei loro confronti una sempre maggiore riserva di indipendenza, che gli consente in ogni momento di cambiare strada e compagnia. Il prezzo di questa libertà, però, è la solitudine. Nessuno risponde più di nessuno a nessuno. Se gli altri non sono più una parte essenziale della nostra vita, noi non lo siamo più della loro.
E’ vero: non si dà cooperativa senza cooperazione, ma non si può dare cooperazione senza comunità. Ma la comunità esiste solo se c’è un fine comune. Con quest’ultima espressione, però, si possono intendere due cose ben diverse, e cioè l’esistenza di un fine uguale o quella di un fine condiviso. Sia nell’uno che nell’altro caso le persone sono riunite dall’avere lo stesso fine. Ma, nel primo caso, ognuna di loro ha il suo fine, sia pure uguale a quello delle altre. Nel secondo, invece, il fine è unico per tutti . Di conseguenza è molto diverso anche il modo in cui questa unione si realizza. Nel primo caso, infatti, è sufficiente una semplice coordinazione tra i partecipanti e non è detto che tutti realizzino il loro obiettivo; nel secondo caso, invece quella che deve svilupparsi è una cooperazione, e nessuno può realizzare ciò a cui tende se non ci riescono anche gli altri.
Due giocatori di tennis, durante la partita, hanno un fine uguale, che è quello di vincere. Ma solo uno potrà realizzarlo. Diverso è il caso in cui c’è un unico fine, condiviso dai partecipanti. Facciamo l’esempio della squadra di calcio. Chiunque si intenda un po’ di questo sport sa bene che, anche se fossero tutti degli assi, questi giocatori non costituirebbero una vera squadra. A renderli tali non possono bastare i fini uguali, ma deve essere il fine condiviso di giocar bene insieme e di vincere, che non può venir realizzato da nessuno di loro se non lo realizzano tutti gli altri.
Ma nelle cooperative sociali siamo davanti a qualcosa di più della pura coordinazione: un fine veramente comune esige la cooperazione ultima. Se i partecipanti tengono conto delle mosse dei loro compagni, non è solo per regolarsi su di esse in vista del proprio soggettivo interesse, ma per far sì che le rispettive scelte convergano, consentendo il raggiungimento dell’obiettivo condiviso. Nella cooperazione, insomma, non basta che i partecipanti vogliano fare la stessa cosa, attraverso una semplice concomitanza di sforzi, ma occorre che la vogliano fare insieme, e che sviluppino così un’attività unica. E ciò che nel calcio si chiama “gioco di squadra”.
Per concludere, vorrei rimarcare e ringraziare per quanto avete fatto e state facendo per il nostro Fondo per il Lavoro: il primo e più valido contributo ci è venuto dal mondo della cooperazione sociale. Grazie e buon proseguimento!
Rimini, SGR, 19 febbraio 2016
+ Francesco Lambiasi