A tutti i Presbiteri
Carissimi tutti,
questa mia, scritta prima della solennità del sacro Cuore di Gesù, vi giungerà probabilmente qualche giorno dopo. Me ne dispiace. Comunque spero che i pochi pensieri qui proposti – se non proprio per preparare questa festa a noi molto cara – possano risultare utili almeno a prolungarne l’onda di grazia. In effetti, pur non coincidendo con il giorno anniversario della nostra ordinazione sacerdotale, il “sacro Cuore” rappresenta un appuntamento annuale, che ci riporta alla scintilla del “primo amore”, quando ci siamo lasciati trapassare nell’intimo dalla domanda fatale, rivolta dal Risorto a Simon Pietro: “Mi ami tu?“.
Permettetemi ora di raccontarvi brevemente e in tutta semplicità cosa rappresenta per me la festa del sacro Cuore. La vedo e la vivo come la giornata della memoria. E’ la felice memoria di un giorno, apparentemente come tanti altri, ma proprio quel giorno Lui passò. Si avvicinò a me e mi chiamò. E io gli balbettai per la prima volta: “Tu lo sai che ti voglio bene“. Così, il rapporto interpersonale con Lui, intriso di tenerezza a primo colpo, si è fatto via via più forte e appagante: da incuriosito a innamorato, da innamorato a compagno, da compagno a discepolo, da discepolo a testimone. E da testimone ad amico. A quel punto mi sono ritrovato pastore delle sue pecorelle. Ora, dopo tanti anni, sento di poter dire con commosso stupore che non si è ancora stancato di me. Comunque è il suo sproporzionato amore per me e il mio pur fragile e intermittente affetto per Lui che alimenta e condiziona il mio essere pastore. Ma povero me, se io arrivassi a sentirmi proprietario delle sue pecore e dei suoi agnelli, perché allora finirei per diventare padrone della loro fede e smetterei all’istante di essere collaboratore della loro gioia. Povero me se mi penso come pastore “in proprio” e mi taglio fuori dal circuito della comunione nel presbiterio. Povero me se mi slego dalla fraternità che mi annoda ai con-pastori e che “deve spontaneamente e volentieri manifestarsi nel mutuo aiuto, spirituale e materiale, pastorale e personale, nelle riunioni, e nella comunione di vita, di lavoro e di carità” (LG 28).
La giornata della memoria diventa così giornata della nostalgia. Non nel senso di una malinconia sterile e amara, del rimpianto inutile, di un sentimento crepuscolare e decadente. Ma nel senso di una nostalgia ‘teologale’ (posso chiamarla così?), che va in due direzioni. Da un lato esprime il desiderio appassionato di “stare con Lui” (come non riandare a Mc 3,14?!) e racconta la voglia ardente di un amore sempre più intimo e intenso con il Signore della mia povera vita (nostalgia della trappa). Dall’altro lato, è la nostalgia della missione: il sogno, cioè, del discepolo-pastore di andare fino ai confini della terra e di vivere fino al giorno del giudizio, per gridare a tutti la bella notizia del Vangelo e cantare alla gente la liberante memoria dell’incontro che ha cambiato e fatto brillare la sua vita. Allora il nostro ministero non sarà minacciato dall’abitudine. Anzi verrà garantito dal rischio di appannarsi nella stanchezza, di appiattirsi nelle tante cose da fare, di raffreddarsi nel trantran quotidiano, di scolorirsi o addirittura di spegnersi del tutto nell’accidia ‘pastorale’, fino a trascinarsi nella frustrazione penosa e risentita del “ma chi me l’ha fatto fare?”.
Colgo l’occasione per allungarvi il sussidio Lievito di fraternità, sul rinnovamento del clero e la formazione permanente. E’ uno strumento umile: spero vi torni utile sia nella revisione personale che nei piccoli gruppi delle zone pastorali.
Con un abbraccio fraterno e cordiale
Rimini, 21 giugno 2017
+ Francesco Lambiasi