Omelia tenuta dal Vescovo in occasione del 7° anniversario della morte di don Giussani e del 30° anniversario del riconoscimento di Comunione e Liberazione
Rimini, Basilica Cattedrale, 20 febbraio 2012
Nella sera dalle ombre più lunghe della storia, quando stava per scoccare l’ora delle tenebre, in cui Gesù veniva tradito e Giuda e i sommi sacerdoti facevano mercato del suo corpo, l’evangelista Giovanni registra l’accorato discorso di addio rivolto dal Maestro ai discepoli smarriti e frastornati. Il vangelo che ci è stato proclamato riporta un frammento di quell’ardente dialogo, in cui per due volte risuona pressante l’invito di Gesù: “Non sia turbato il vostro cuore” (Gv 14,1.27).
Perché i discepoli del Signore non devono avere paura? Perché devono persino rallegrarsi della sua partenza? Perché la Chiesa non deve mai smarrire la speranza, soprattutto di fronte alle aggressioni sfrontate e alle ambigue seduzioni del mondo? La risposta è semplice e rasserenante: perché i discepoli non sono e non saranno mai “orfani”. Perché Gesù ha promesso ai suoi, prima di partire, quattro doni: la forza e la tenerezza della comunione, una presenza nuova di Dio, l’azione efficace dello Spirito, la sua pace. Quattro promesse di doni, un solo donatore: lo Spirito Santo.
“Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà”. Ecco la prima promessa: il dono della comunione. La carità cristiana è la corrente che scorre sul filo della ‘resistenza’, che lega in relazione Gesù e i discepoli, i discepoli tra di loro, e con Dio Padre. L’amore evangelico non è un sentimento effimero e generico. E’ una vita che ha il volto e il cuore dello Spirito, il quale nella Scrittura è detto ‘comunione’ (cfr 2Cor 13,13). Nella santa Trinità lo Spirito Santo è l’unico a portare un nome che è comune a tutte e tre le Persone, perché tutto in Dio è ‘spirito’ e tutto è ‘santo’ , mentre solo il Padre si può chiamare Padre e solo il Figlio si può chiamare Figlio. Lo Spirito Santo è lo Spirito del Padre e del Figlio, e dunque è la comunione che lega il Padre e il Figlio, la scaturigine di ogni comunione tra di noi, e tra noi e Dio. “Il Padre e il Figlio hanno voluto che noi avessimo comunione tra noi e con loro per mezzo di ciò che è comune in seno ad essi e hanno voluto riunirci in unità per quello stesso dono che essi hanno in comune tra di loro”, scrive sant’Agostino (PL 38,454). Ma bisogna sempre ricordare che la scintilla del gran fuoco della comunione piove dall’alto, come il fuoco della Pentecoste. E’ l’amore di Dio per l’uomo ad avere sempre il primato. Affermava il vostro Fondatore: “La carità di Dio per l’uomo è una commozione: un dono di sé che vibra, si agita, si muove, si realizza nella realtà di una commozione. Dio che si commuove! Dio che si commuove per il nostro niente!”. E qual è l’effetto di questa comunione?
Ecco la seconda promessa. “Noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. Il discepolo diventa addirittura la casa di Dio, il suo tempio santo. Quando Salomone consacrò il tempio, compose una preghiera intrisa di stupore: “Come è possibile che Colui che i cieli e i cieli dei cieli non possono contenere, abiti in questa casa?”. Con Gesù noi abbiamo ben più di Salomone, ben più del tempio: Dio non abita più nel tempio di Gerusalemme, ma preferisce piantare la sua tenda nei nostri cuori. “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?” (1Cor 3,16)? Noi non siamo mai soli: Dio è sempre con noi, abita in noi. E’ comunque un mistero, di fronte al quale scatta stupefatta la domanda: “Come è possibile?”. Anche questo capolavoro della misteriosa, realissima presenza di Dio porta la firma dello Spirito Santo. Infondendo nei nostri cuori la carità, lo Spirito Santo non infonde solo una virtù, fosse pure la più grande delle virtù, ma infonde se stesso. Il dono di Dio è l’inabitazione in noi del Donatore stesso, e con lui, dell’intera Trinità.
Ma c’è una terza promessa di Gesù: “Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa”.
“Chi può non lasciare le parole di Gesù come erranti ai bordi della nostra coscienza? Chi può non farci ripetere queste parole, ma farcele dire come espressione di un’esperienza iniziale, incoativa, ma già reale di eternità? Chi può incominciare a farci penetrare queste parole?”, si chiedeva Don Giussani. E rispondeva netto: “Chi può introdurre nel mistero di Cristo, chi ci può dare accesso alla contemporaneità di Cristo è lo Spirito di Cristo”. Ecco il frutto della inabitazione dello Spirito Santo in noi: ci guida verso la verità tutta intera non dicendoci altro, né andando oltre quello che Gesù ci ha detto, ma facendoci percepire la verità di quanto ci ha rivelato. Lo Spirito del Risorto non completa l’insegnamento di Gesù, ma ne rende trasparente la pienezza, ne svela la perenne attualità. Questo avviene in modo particolare attraverso la lettura della sacra Scrittura. Il concilio ci ricorda: “La sacra Scrittura è parola di Dio in quanto scritta per opera dello Spirito Santo”, e perciò essa “fa risuonare la voce dello Spirito” (DV 9; 21). E’ amando che si capisce la Parola. Lo Spirito Santo non è un ripetitore a distanza: quando leggo la sacra Bibbia in comunione con la Chiesa, è il suo soffio che mi fa sentire in quella parola la voce stessa di Cristo che mi parla: “il vangelo è la bocca stessa di Cristo”, affermava s. Agostino. Non si tratta di autosuggestione: il Paraclito non mi fa leggere la parola ispirata “come se Cristo mi parlasse ora”, ma mi fa ascoltare la parola che Cristo stesso mi sta dicendo ora.
E, infine, Gesù promette ai suoi il dono della pace. Non come la promette e la dà il mondo. La pace di Gesù è a 180 gradi dalla finta pace del mondo, basata sui mastodontici, ma fragili e friabili piloni dell’egoismo, della menzogna e della violenza. La pace di Gesù ha il costo più alto, la croce. Ma è un costo che frutta il ricavo più prezioso, la gioia della Pasqua. La pace di Cristo non è il nirvana del Buddhismo. Il nirvana viene interpretato come negazione e fine della sofferenza attraverso l’estinzione di ogni desiderio. La pace cristiana non è negazione, ma affermazione e compimento di tutti i desideri di bene che lo Spirito accende nei nostri cuori.
La pagina che abbiamo ascoltato custodisce l’essenza del cristianesimo. “Se uno mi ama”. Tutto si ricentra sul sentimento più importante del mondo divino e più dirompente del mondo umano: l’amore. Non è una formula, ma una persona: lo Spirito del Risorto, che ci fa sentire Cristo come nostro contemporaneo. “Se uno mi ama, osserverà la mia parola”. Questa parola non esprime un ordine, ma apre una possibilità; non declina un verbo all’imperativo, ma al futuro, che esprime il rispetto emozionante di Dio, che bussa alla porta del cuore e attende: se ami, farai. E subito rovescia il nostro modo di pensare. Noi avremmo detto: se osservi la mia parola arriverai ad amarmi, senza avvertire che questa logica capovolge il Vangelo, perché vede Dio come uno specchio su cui far rimbalzare i propri meriti, Dio della legge e non della grazia. Un detto medioevale afferma: «I giusti camminano, i sapienti corrono, gli innamorati volano». L’amore libera una energia, una luce, un calore, una gioia in tutto ciò che fai, e ti pare di volare. Solo se hai scoperto la bellezza di Cristo partirà la spinta a vivere il suo Vangelo. Perché la nostra vita non avanza con i testacoda della nostra volontà, ma per una passione. E la passione nasce da una bellezza. L’amore per Gesù sgorga dalla bellezza del suo volto, dalla sua vita buona, bella e beata. La vita più umana che ci sia, la vita nuova del vangelo.
+ Francesco Lambiasi