Omelia, Basilica Cattedrale, 10 aprile 2009, Venerdì Santo
Di fronte alla croce non si può stare da spettatori, ma solo da imputati.
Quando lo storico romano Publio Cornelio Tacito, che pure era informato e ci informa della morte di Gesù sotto il governo di Pilato, si trovò a dover riassumere la situazione nella Palestina di quegli anni, con il suo solito stile scarno e secco, si fece bastare appena tre parole: “Sub Tiberio quies” (“Sotto Tiberio, tutto tranquillo”). Tacito non poteva neanche lontanamente immaginare quali violente passioni avesse scatenato in quegli anni la predicazione del Galileo di Nazaret e quale dramma si fosse consumato quel 14 di nisan dell’anno 30 a Gerusalemme, a seguito della famigerata sentenza capitale di un oscuro procuratore imperiale. Noi cristiani del terzo millennio, rischiamo ben altro: non l’ignoranza dei fatti, ma l’indifferenza di fronte al dramma. Conosciamo per filo e per segno la storia di Gesù di Nazaret; forse sapremmo ricostruire in modo perfino puntiglioso che cosa sia avvenuto in quegli anni e in particolare all’ora nona del giorno più lungo e drammatico, che si sia verificato sotto la volta del cielo. Quando Saulo inciampò sul vero messaggio che la storia del Nazareno racchiudeva, non concluse più: “Maledetto colui che pende dal legno”, ma arrivò a dire: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me”. Con il fuoco di quella notizia i primi cristiani incendiarono tutto il bacino del Mediterraneo. Come mai noi facciamo tanta fatica a contagiare il fuoco di tanto amore?
Probabilmente il motivo è da ricercare nel fatto che la croce non è stata vista come la più grande prova dell’amore più grande, ma come la vendetta di un Dio adirato, offeso dal peccato e placato dal sangue del Figlio. Poiché il peccato si carica di una malizia infinita in quanto offende Dio infinito – questa in sintesi l’idea orribile della croce, che è circolata per troppo tempo – solo Cristo poteva soddisfarla al posto nostro. Un’idea raccapricciante di Dio, purtroppo insegnata nella scuola, e annunciata da celebri predicatori. Come ad esempio il gesuita francese Bourdaloue (+1704): “Eravate voi, o Signore che, giustamente facevate sentire la pesantezza del vostro braccio, non più al vostro servo Giobbe, ma al vostro figlio unico”. In tal modo Dio diventava un Dio crudele, il carnefice del Figlio. Come riconoscere in questo mostro spietato il volto tenero e misericordioso del Padre di Gesù di Nazaret? E come non ammettere che una parte delle responsabilità dell’ateismo contemporaneo è dovuta anche a noi credenti, come ammetteva onestamente il Concilio:
“Nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, nella misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina (…), si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio” (GS 19).
Nella seconda metà del XX secolo, con i progressi nel campo dell’esegesi biblica e dello studio dei Padri della chiesa, si è giunti all’approfondimento del mistero della croce. Più che opera della giustizia, la croce è stata vista – secondo la genuina visione biblica e patristica – come opera dell’amore di Dio. Basti ricordare del resto le parole di Gesù stesso: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito…”.
Il Padre non manda il Figlio nel mondo a soffrire e a morire. Lo manda ad amare e a salvare l’umanità, anche se si sa – e Dio lo Sa prima e più di noi – che quando l’amore si espone in un contesto di violenza, c’è da mettere in conto il prezzo più salato, il sacrificio della vita, in una parola la croce.
Dunque il Figlio soffre, ma anche il Padre soffre con lui. E’ possibile che il cuore del Padre, che trema e trepida per ogni figlio d’uomo, se ne rimanga insensibile e impermeabile al dolore del Figlio?
Ma qual è stato il dolore più grande del Figlio sulla croce? Nel non sentire più il Padre vicino. Perciò ha gridato: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. E’ chiaro che Gesù non poteva essere e non è stato effettivamente abbandonato dal Padre, il quale anzi mai è stato così vicino al Figlio come nell’ora suprema in cui egli compiva la massima obbedienza per suo amore. Ma, in quanto uomo, che si era addossato tutto il peccato del mondo, in quel momento Gesù non è stato, ma si è sentito abbandonato dal Padre. Non può essersi trattato di un abbandono effettivo, ma affettivo. E questo enorme vuoto affettivo che si crea sempre tra la santità di Dio e il peccato dell’uomo, si è creata in quel momento tra il Padre e il Figlio, ed è stata indicibilmente sofferta dal Figlio, ma anche dal Padre.
Questa fu la sete insopportabile sofferta da Gesù sulla croce, una sete d’amore. Infatti anche a Lui “tutto gli fu tolto alla fine. Persino l’amore che lo aveva condotto in croce: egli non lo assapora più, non può più amare il suo proprio amore, nessuna fiamma di passione arde più in Lui. Il suo cuore ormai gli si versa goccia a goccia e sfocia nell’impotenza: annientò se stesso” (Metz).
Ecco allora il grido di Gesù sulla croce: “Ho sete”. Non è sete d’acqua o d’aceto analgesico, ma sete d’amore. Il Padre risponde alla sete del Figlio con la sua risurrezione. E noi come rispondiamo?
Che l’eco di quel grido d’amore del Crocifisso continui o riprenda a percuotere il nostro cuore…