Omelia del vescovo per la messa crismale
Ormai sulla soglia dei tre santi giorni, ho pensato quest’anno di condividere con voi alcuni pensieri sulla via crucis del prete. Ne parlo come uno che ha ancora molto da imparare in un campo delicato come questo. E con tanta gratitudine ai non pochi preti che ci hanno fatto da testimoni, e perciò da autentici maestri, sulla salita al Calvario del Crocifisso-Risorto. Permettetemi di nominarli uno ad uno, dalla Pasqua dell’anno scorso: don Elio Piccari; Mons. Mariano De Nicolò; don Ferruccio Capuccini; diacono Maurizio Bertaccini; don Giuseppe Celli; don Fernando Della Pasqua; don Claudio Signorini; don Giorgio dell’Ospedale; don Redeo Baffoni; don Probo Vaccarini; don Dino Gabellini. In premessa vorrei anche far notare che parlare di via crucis del prete non è affatto declinare un tema divisivo e discriminante. Non solo perché la croce ci accomuna tutti, come popolo sacerdotale, profetico e regale. Ma anche perché, se oggi è il compleanno del nostro presbiterato, è anche, a tutti gli effetti, una vera festa del sacerdozio cristiano.
Ora passo alla via crucis del prete. Lo sappiamo bene: con la croce di Gesù non si scherza. Il vangelo della croce non si può maneggiare a proprio uso e consumo, perché “non segue un modello umano” (Gal 1,11). E’ un messaggio urticante, sconvolgente. Scottante, come un cavo ad alta tensione. Se pensi di poterlo afferrare a piene mani, ti fa ‘secco’ di colpo. Ma il nostro rischio più serio con la notizia della croce non è tanto quello di respingerla al mittente, di censurarla sotto traccia o di boicottarla smaccatamente. E’ piuttosto il rischio di annacquarla, e, più o meno elegantemente, di scolorirla.
1. Poche persone, come il prete, sono chiamate ad immergersi fino al collo, dentro il mistero del dolore. Sono molti i problemi della ‘via crucis’ nella vita e nel ministero del prete. C’è la croce piantata sul terreno ruvido della propria esperienza umana: le difficoltà di carattere, i problemi di salute, le fatiche di relazione, i dispiaceri familiari. C’è la croce di un ministero talvolta aspro, duro, scoraggiante, scorticante. C’è la croce della comunità, delle persone che la compongono o che magari vi si accostano anche solo tangenzialmente: con i loro problemi spinosi, i loro drammi segreti, le loro penose sventure, le loro relazioni appesantite o disturbate. Perfino con le loro attese esorbitanti, o, talvolta, con le loro futili, snervanti questioni.
Forse nessuno più di Paolo di Tarso può farci da guida autorevole, può accompagnarci da scorta esperta, per scollinare le non poche pareti di sesto grado che cadenzano fatalmente la via della croce. L’apostolo ci suggerisce tre atteggiamenti fondamentali per mettere in atto la difficile, disagevole, ma pur ineludibile e indispensabile, conformazione con Cristo crocifisso.
Anzitutto imparare ad entrare nel mistero della croce.
Il varcare quella soglia non è mai facile. La disponibilità di fondo non è mai sufficiente. La croce spiazza tutti, sempre. Perché è fatta così: un conto è se ne devi parlare, un conto se la devi portare. E un conto è se io la porto da facchino svogliato o arrabbiato, un altro conto è se la porto da discepolo innamorato.
Per varcare la soglia della ‘scuola della croce’ occorre una fede robusta. Che sappia smontare la tentazione di esasperare le situazioni. Lo sappiamo: ci fa sempre bene alzare lo sguardo sulle molte, ruvide croci, piantate all’ombra discreta di tante case. Talora non disturba neanche, nella vita del prete, il senso di auto-umorismo, soprattutto di fronte alle bugie pietose, quando arriva, presto o tardi, l’ora di ammainare le vele. In quell’appuntamento con la croce che chiama alla definitiva conformazione a Cristo, il pastore grande delle pecore. In quella vigilia di Pasqua da vivere per l’ultima volta.
2. Imparare ad andare avanti con le croci. Non poche volte in una comunità tutto si blocca. Ci si passa a vicenda la voce che “bisogna pazientare, bisogna lasciar perdere impegni e attività, perché il prete ha dei problemi”. E allora si corre il rischio di perdere il tempo più fecondo della vita di una comunità. Il prete è tentato di ripiegarsi, di chiudersi a riccio nel suo mondo fitto di incognite e complicazioni, in un clima triste, raggelante, senza condivisione, senza comunione.
Riuscire ad andare avanti con la croce, tra le croci, domanda di aver fiducia nel dono del ministero, nella condivisione con i confratelli, nella collaborazione con le sorelle e i fratelli della comunità. Ma non c’è un tempo in cui pensare ai propri problemi e un altro tempo, diverso, per servire la comunità. Questa ha bisogno di crescere anche attraverso le prove del suo pastore: talora si tratta di malattia, di situazioni dolorose di carattere familiare o comunitario. Spesso questi prolungati momenti di sofferenza del prete possono generare comunità più mature, più responsabili, più partecipate, più feconde.
3. E infine, occorre imparare a crescere nella croce. Scrive s. Paolo: “Per questo non ci scoraggiamo; ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno” (2Cor 4,16).
Dal crogiolo della croce sgorga l’oro puro dell’uomo interiore: la sua vera statura, umana e spirituale. Come un albero: quando è rigoglioso, carico di frutti, attira l’attenzione su di sé, e richiama la giovinezza e l’età matura della vita. Ma poi, quando arriva l’autunno, spoglio di foglie e di fronde, svetta verso l’azzurro, lascia passare il sole tra i rami, e addita il cielo. Così la vita dell’anziano o di un cristiano crocifisso: manca di efficienza, non è più brillante, non si lascia più ammirare, ma può segnalare l’essenziale. Proprio attraverso la somiglianza con il Pastore crocifisso. Indica il sole…
Quando un presbitero entra e sta con umiltà e sapienza spirituale alla scuola della croce, ne esce più umano, più vero. Sa comprendere la debolezza altrui, sa incoraggiare, sa seminare gioia e speranza, sa amare. E’ sempre capace di stupore di fronte alle novità che lo Spirito rigenera dentro e fuori di lui.
E sa alfine vivere la vita come una intensa vigilia della vita senza fine.
Rimini, Basilica Cattedrale, 31 marzo 2021
+Francesco Lambiasi