Omelia del Vescovo per la Messa esequiale in memoria di don Mauro Evangelisti
I vangeli canonici sono quattro – secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni – ma non è affatto né eretico né errato parlare di un “quinto vangelo”. Il quale però non è da intendersi come un vangelo riportato da qualche amanuense su un antico codice, ma è quel vangelo scritto con il sangue dei martiri, con il sudore dei pastori, con l’audacia dei profeti, con la sapienza dei maestri, con l’umile splendore della “santità della porta accanto”. La vostra presenza così numerosa e palpitante mi dice che tutti noi siamo certi che don Mauro è stato più che un santo prete. E’ stato letteralmente un prete santo. Tutta la sua vita è stata una vera pagina di questo quinto vangelo che i cristiani continuano a scrivere con la loro vita. Ed è proprio per essere fedele al vangelo secondo don Mauro che ritengo che io ora mi fermi subito qua e che ceda la parola a lui stesso. E’ vero: Don Mauro ha scritto pochissimo, e che negli ultimi aveva completamente perso l’uso della parola. Ormai non parlava più con le labbra, ma si era fatto lui stesso parola di vita. E comunque in questi giorni sono venuti alla luce due suoi scritti: una lettera di commiato alla sua comunità di Miramare dell’agosto 2003 – che abbiamo letto ieri sera nella veglia di preghiera a Montetauro e che al termine di questa celebrazione sarà consegnata in copia a tutti i sacerdoti qui presenti. L’altro testo è una testimonianza data da don Mauro, quando ancora riusciva a comunicare con il puntatore oculare. E’ una testimonianza data ai giovani dei gruppi vocazionali “Ester” e “Samuele”, che risale attorno agli anni 2013-2015. Ve la leggo. E’ l’omelia di don Mauro, non su don Mauro. Ascoltiamo.
“La chiamata del Signore nella mia vita si è manifestata progressivamente e in modi diversi.
Nell’adolescenza, ad esempio, mi è stato chiesto un servizio con i bambini in parrocchia. Io non avevo la più pallida idea di cosa dovevo fare e non mi sarei mai offerto spontaneamente per questa cosa. Ho risposto di sì perché me lo chiedevano e perché c’era bisogno. La mia famiglia mi aveva sempre trasmesso il senso di responsabilità, che concretamente voleva dire non tirarsi indietro e prendere le cose sul serio. In un primo tempo avrei dovuto occuparmi della prima elementare e comunque mi avevano promesso di aiutarmi. Invece quando è stato il momento mi sono trovato da solo e con i ragazzi di terza media. Io avevo solo due anni più di loro. Umanamente la cosa non stava in piedi in nessun modo, ma proprio per questo ho capito in seguito che era il Signore a lavorare dietro le quinte.
Nel frattempo io sentivo il bisogno di formazione per la mia fede, non solo per il servizio che dovevo fare, ma anche perché nelle scuole superiori non volevo nascondermi di fronte alle sfide dei compagni e avevo bisogno di una maggiore solidità personale.
Col tempo, in parrocchia alcuni amici si sono uniti a me e insieme ci aiutavamo anche in questo cammino spirituale. Poi abbiamo cominciato a frequentare il gruppo giovani di un’altra parrocchia più organizzata della nostra e lì abbiamo fatto veramente l’esperienza di un cristianesimo bello e gioioso, l’esperienza di una comunità cristiana piena di passione per il Signore.
Così stavo per finire le scuole superiori e mi rendevo conto che era un momento decisivo per la mia vita. Cominciavo a chiedermi che cosa fare concretamente e dentro sentivo questa passione che spingeva. Ho chiesto aiuto al mio padre spirituale e mi ha fatto capire che non c’era niente in contrario anche per pensare al sacerdozio. in quel momento mi sembrava di essere io a scegliere questa strada. Solo più tardi avrei capito cosa voleva dire “non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”.
Perché è il Signore che sceglie prima di noi. Io sentivo che c’era bisogno di qualcuno e io davo la mia disponibilità, ma al mio posto poteva andare anche un altro. Era un po’ come nella vocazione di Isaia. Il Signore diceva “chi manderò?” e io rispondevo “manda me”. Ma il Signore non vuole solo qualcuno in modo generico: vuole proprio ciascuno di noi personalmente.
Così è cominciato il tempo del seminario con la verifica vocazionale. Nel terzo anno di teologia ho avuto un momento molto difficile, perché mi sembrava proprio di non farcela. Lo sbaglio pero era quello di sentire tutto sulle mie spalle e di contare solo sulle mie forze. Poi il Signore mi ha risollevato e sono ripartito, fino all’ordinazione.
A questo punto la chiamata si concretizzava nell’obbedienza alla chiesa, cioè nell’accettare i compiti che mi venivano affidati e la destinazione che il vescovo aveva pensato per me.
Io fremevo un po’, perché mi sembrava che il Vescovo decidesse sulla mia testa, senza sentire anche il mio pensiero. Invece ho sempre potuto dire quello che pensavo e ho capito che la mia visione delle cose era sempre parziale, mentre chi aveva responsabilità più grandi vedeva anche più lontano di me. Nei momenti di difficoltà è sempre stato importante sapere che non ero stato io a voler essere lì, ma che mi ci aveva messo qualcun altro, attraverso il Vescovo.
Quando sono andato in parrocchia, la vocazione si concretizzava nell’ascoltare le necessità e le attese che c’erano, nel far crescere nella fede le persone e la comunità nel suo insieme, nel lavorare in sintonia con la Diocesi e con tutta la Chiesa.
Insomma, la vocazione non si è manifestata una volta sola, ma dopo la prima volta, più importante e decisiva, si è tradotta in un percorso quotidiano.
Ad un certo punto si è verificato l’imprevisto della malattia. All’inizio mi permetteva di fare tutto come prima. Poi le cose si sono complicate ed ero costretto a stare fuori dalla parrocchia troppo tempo per riuscire a fare il mio servizio. Così ho capito che dovevo lasciare il posto a qualcun altro. Ne ho parlato col Vescovo, il quale ha condiviso il mio discernimento e mi ha sollevato da quell’incarico per fare qualcosa di più semplice.
Io non ho mai pensato che la malattia mi sia stata mandata dal Signore, perché Gesù guarisce i malati e manda anche gli apostoli a fare la stessa cosa. Però Gesù ha preso su di sé le nostre sofferenze e ha chiesto a tutti di portare la propria croce ogni giorno. Croce non significa solo malattia, ma anche la fatica del lavoro o dello studio, quella di prendersi le responsabilità del proprio stato di vita e in generale l’impegno per costruire il Regno di Dio.
Portare la croce della malattia è solo una delle possibilità, ma se non c’è questa ce n’è un’altra. Senza croce non c’è vita cristiana. Però il cristiano porta la croce per vincere il male e per realizzare la Pasqua, cioè la pienezza della vita. Per il cristiano la croce è una fatica ma non è tristezza, perché Gesù ha già vinto e gli afflitti sono già stati consolati. Per questo, come dice san Paolo, “Dio ama chi dona con gioia“.
La nostra croce, come quella di Gesù, è un modo di condividere con gli altri.
Come prete ho conosciuto tante situazioni di sofferenza, ma prima potevo al massimo stare vicino a queste persone. Adesso non sono più soltanto vicino ma dentro la loro situazione, per lottare insieme con loro.
Ogni volta che noi celebriamo l’eucaristia ci uniamo a Gesù che dona la sua vita. la malattia e ogni tipo di croce e un modo di dare la vita con Gesù. Se io ho risposto alla mia vocazione penso che sia dovuto proprio alla fedeltà all’eucaristia. Dai 18 anni ho cominciato a frequentarla ogni giorno. Con l’eucaristia naturalmente mi nutrivo anche della parola di Dio.
Se devo dire in che modo Dio fa sentire la chiamata, penso che sia proprio attraverso la comunione con Lui, che ci rende sensibili alle necessità dei fratelli. Dove si vede un bisogno, lì c’è una chiamata. Chiaramente il Signore non chiede tutto alla stessa persona, ma lo chiede alla comunità nel suo insieme. Quindi la vocazione è personale, ma per viverla c’è bisogno della comunità, dove le varie chiamate si sostengono e si integrano reciprocamente. Per me, ad esempio, il Signore ha provveduto questa comunità, che mi accudisce nella mia totale dipendenza dagli altri.
Grazie a loro io posso continuare ad esercitare anche attivamente il mio sacerdozio. Quando poi non sarò più in grado di fare niente, offrirò la mia impotenza come quella di Gesù sulla croce, ma sappiamo che tutto questo è solo un passaggio verso quella “vita in abbondanza” promessa da Gesù.
Il passo del vangelo che adesso sento più vicino è quello in cui Gesù costituisce Pietro come pastore, dopo aver detto che il buon pastore dà la vita per il suo gregge. Poi parla di quando Pietro era giovane e si vestiva da solo per andare dove voleva. Nella vecchiaia invece sarebbe stato qualcun altro a vestirlo e a portarlo dove lui non avrebbe voluto, per seguire Gesù e dare gloria a Dio fino in fondo.
La mia condizione attuale è esattamente la stessa. Dipendo totalmente dagli altri, che mi accompagnano nel tratto della mia vita in cui mi viene chiesto di glorificare Dio in questo modo”.
Don Mauro Evangelisti