Omelia tenuta dal Vescovo in occasione della Messa celebrata in ringraziamento per la canonizzazione di s. Amato Ronconi
Il beato Amato Ronconi, canonizzato da papa Francesco il 23 novembre scorso, ormai è santo, il primo e finora unico santo interamente nostro, del secondo Millennio. Come non ringraziarne il Signore e il Vescovo di Roma? Ma chi è un ‘santo’? Lo sappiamo noi veramente? Della vita di ogni santo si possono tracciare due interpretazioni fondamentali: l’interpretazione agiografica e quella profetica. La prima consiste nel considerare il santo come il modello immacolato di ogni virtù, che ci si deve sforzare allo spasimo di imitare e riprodurre, senza però neanche lontanamente illudersi di poter raggiungere l’alta quota della sua vertiginosa perfezione, talmente poveri e meschini noi siamo. L’interpretazione profetica, invece, non si interessa tanto a ciò che il santo ha fatto di eroico nella sua vita, quanto piuttosto a ciò che Dio ha detto, ieri come dice oggi, a noi attraverso la sua vicenda. Ecco, Amato Ronconi come profeta, ossia come messaggero e portavoce di Dio.
1. E’ proprio di questo profeta che io vorrei parlarvi. L’Amato Ronconi da Saludecio rischia facilmente di stancare o di scoraggiare, tanto ci sembra perfetto e irraggiungibile. L’Amato profeta, no: ci interpella oggi come ieri; ci prende dove siamo, perché non è lui che parla, ma Dio che parla tramite lui. E questa parola, come ogni vera parola di Dio, è uno squillo di tromba che risveglia, una fiamma di Dio che incendia. E’ come un martello che spacca la roccia, direbbe Geremia, o come un ruggito di leone, direbbe Amos, il rude profeta-pecoraio di Tekoa.
Oggi, fratelli e sorelle, vorrei vedere con voi sant’Amato come profeta, inquadrato in controluce con l’ultimo dei profeti dell’Antico Testamento, Giovanni di Zaccaria, protagonista della liturgia di questa terza domenica di Avvento. E lo vorrei intravedere anche in sovrapposizione – quasi in filigrana – con Francesco d’Assisi, di cui il nostro santo ha abbracciato lo spirito e la regola del terz’Ordine. C’è infatti una parola che lega come un filo rosso questi tre autentici profeti, mandati da Dio. E’ la parola penitenza, una parola esiliata dal nostro vocabolario, perché richiama veglie, aspri digiuni e flagellazioni. Ma al tempo di Francesco d’Assisi e di Amato di Saludecio, questa parola – “penitenza” – veniva intesa in senso evangelico, e non diceva niente di più, ma anche niente di meno che conversione. Non perché il figlio di Bernardone e Amato di Saludecio fossero pagani, ma perché a un certo punto della vita hanno scelto di fare i cristiani. No, non di giocare a fare i cristiani, ma di esserlo: sul serio, con una dedizione radicale e una inossidabile fedeltà. E’ stata proprio la penitenza-conversione il messaggio asciutto e provocante, proclamato dal Precursore (cfr Mc 1,4). Come è scritto anche nel vangelo di Matteo: “Giovanni predicava nel deserto della Giudea, dicendo: Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!” (Mt 3,2). Da parte sua Francesco nel suo Testamento così rievoca gli inizi della sua vita nuova:
“Il Signore concesse a me, frate Francesco, d’incominciare così a fare penitenza, poiché essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo” (FF 110).
Tutta la vita di Amato Ronconi ruota attorno a questo ruvido, ma liberante messaggio, firmato da Cristo Signore e indirizzato al suo popolo: “Convertitevi, capovolgete mente e cuore, invertite la via, cambiate la vita”. Non perché Amato prima fosse un dissoluto o un criminale, tutt’altro, ma perché ha scelto di diventare cristiano. Poteva imboccare una strada larga e seducente, lastricata di lussi e di spassi, ma che lo avrebbe fatalmente condannato a vivere una vita infetta dal virus del narcisismo, bacata dai tarli dell’egoismo, della vanagloria, dell’invidia e della gelosia, e che prima o poi avrebbe lasciato vuoto e inappagato il suo giovane cuore, assetato di cielo. Poteva seguire la via retta e integra dei comandamenti, ma se non avesse rinunciato ai suoi beni per seguire Gesù più da vicino, si sarebbe ritrovato come il giovane ricco: un uomo perbene, onesto ma triste, sazio e insoddisfatto. No, Amato da Saludecio non ha voluto per sé un’esistenza piatta e ripiegata, senza la fiamma di un amore appassionato per il Crocifisso, senza un brivido di compassione per i tanti crocifissi della storia. Amato si è lasciato abbracciare da Gesù, ha verificato in pieno il suo nome, si è sentito letteralmente e autenticamente “amato”. A quel punto ha rinnegato il suo io vorace e possessivo come è l’io di ogni verace figlio di Eva, ha infilato il ripido sentiero delle beatitudini e ha scalato il monte della felicità.
2. Oltre alla profezia della penitenza, anzi proprio per vivere da vero penitente fino in fondo, sant’Amato ha declinato la grammatica della conversione con l’alfabeto della povertà. Si è lasciato affascinare dall’ideale francescano, vissuto dai francescani del vicino convento di Monte Orciale. Fedele discepolo del Poverello di Assisi, sant’Amato ha vissuto la profezia della povertà, come aveva già fatto il Battista. “Giovanni – leggiamo dal vangelo di Matteo – portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico” (Mt 3,4). Quello di Giovanni è il vestito di Elia, padre dei profeti (cfr 2Re 1,8). E’ il vestito dell’uomo nuovo, profeta rivestito di Cristo, che della Parola fa il suo cibo. E se il Precursore prepara la strada a Gesù, che non avrà dove posare il capo, il Poverello d’Assisi non può guardare il suo Signore, che “da ricco che era si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà” (2Cor 8,6) senza piangere e mettere i piedi nelle sue orme. Francesco non può contemplare il Crocifisso di san Damiano, nudo sulla nuda croce, senza poi denudarsi delle sue vesti in Piazza Maggiore, e senza indicare ai suoi frati la strada della castità, obbedienza e povertà. Ma – si noti bene – nella Regola Francesco non usa la parola povertà e la sostituisce sistematicamente con l’espressione “senza nulla di proprio”. Perché questa è povertà evangelica: non attaccarsi neanche al bene ricevuto o donato, perché il bene appartiene solo al Bene sommo, che è Dio.
Altrettanto fa Amato: non solo vive da povero e per i poveri, ma tra i poveri: Come Francesco, Amato ha rinunciato a tutti suoi beni perché ricolmo del Bene infinito, si è dedicato ai poveri pellegrini, e per loro ha fondato e costruito un ospizio-ospedale.
3. Il terzo tratto della profezia di Amato Ronconi è quello del pellegrinaggio. Rimini, San Marino, Assisi, Roma e, per quattro volte e mezzo, Santiago di Compostella. E in questo Amato marca una certa discontinuità sia dal modello del Battista che da quello di s. Francesco. Giovanni infatti è stato un predicatore che pendolava su e giù lungo il Giordano. Francesco ha fatto l’esperienza di vari pellegrinaggi, ma è stato soprattutto un missionario più che un pellegrino vero e proprio. Nei suoi venti anni circa dopo la conversione, ha macinato miglia e miglia per l’Italia in lungo e in largo, è andato perfino alla crociata, ma senza benedire la guerra. Comunque è stato un predicatore itinerante.
Sant’Amato invece è stato un vero pellegrino. Ma qual è la profezia veicolata dal pellegrino? L’esperienza del pellegrinaggio è una metafora che identifica in pieno la vita cristiana. Il pellegrino non è un vagabondo, senza né meta né fissa dimora, che vaga solo per il piacere di andare qua e là. Non è neanche un esploratore che va in cerca di nuove terre. Il pellegrino invece non si mette per via per andare a scoprire una terra ancora sconosciuta, ma perché ha il cuore puntato come l’ago di una bussola: sempre orientato verso il nord. E il nord per il pellegrino è la casa del Padre, di cui il santuario terreno è segno emblematico ed espressiva indicazione.
Ecco la profezia del pellegrino Amato: ci rammenta che noi non siamo dei vagabondi smemorati che non ricordano più da dove sono partiti e dove stanno andando. Siamo, come Gesù, dei viandanti diretti alla santa Gerusalemme, per abitare nella casa del Padre, dove non sarà più né lutto, né dolore, né pianto. Perciò la vita è un santo viaggio: passando per la valle del pianto, la trasforma in una sorgente. Il pellegrino, spoglio di tutto, ha trovato il tesoro, il regno di Dio, e riesce così a vedere Dio in tutto. Come Francesco vede nel sole un fratello e una sorella nella luna, e vede Dio nella madre terra e perfino in “sora nostra morte corporale”. così il pellegrino Amato trova Dio dappertutto: nelle pozze d’acqua lungo il percorso, nelle gocce di rugiada, nel profumo del caprifoglio, nella tenerezza delle pecore madri per i loro agnellini, negli occhi ardenti degli innamorati, in una chiesetta satura d’incenso, nel perdono accordato ai persecutori, nell’umile coraggio del martire, nella instancabile dedizione di una madre per il figlio disabile. Dio tutto in tutti: questa è la profezia di sant’Amato. Non ci interpella, noi cristiani tiepidi e sonnolenti di inizio Millennio, una profezia così audace?
Rimini, Basilica Cattedrale, 14 dicembre 2014
+ Francesco Lambiasi