Omelia per l’ordinazione diaconale di Massimo Colonna, Luca Ghini, Roberto Manzelli, Marco Ronconi, Gabriele Fabbri, Andrea Tommasoni
1. Un giorno un pagano chiese a rabbi Hillel di insegnargli tutta la Legge, stando dritto su un piede solo, come a dire: nel minor tempo possibile. E il grande maestro rispose in un lampo: “Non fare al tuo prossimo ciò che non vuoi sia fatto a te”. Del resto un passo della letteratura rabbinica, alla domanda: “Qual è il comandamento che riunisce tutti gli altri?”, rispondeva: “La proibizione del culto degli idoli”. Queste testimonianze stanno a dire che era frequente nel giudaismo del tempo di Gesù il tentativo di ridurre tutta la Legge mosaica ad un paio di imperativi più importanti.
Da parte sua, annodando in un unico enunciato il comandamento dell’amore di Dio e quello dell’amore del prossimo, Gesù non aggiungeva nulla a quanto era prescritto dalla legge antica: il primo e il secondo comandamento si trovano tutt’e due già nell’Antico Testamento. La novità di Gesù si riscontra nell’averli ridotti a uno solo: Amerai il Signore Dio tuo e il tuo prossimo come te stesso. Questi due precetti non possono essere né giustapposti né sovrapposti né tantomeno contrapposti. Vanno piuttosto incrociati. Perché l’amore di Dio senza l’amore del prossimo rischierebbe di risultare illusorio: mancherebbe di concretezza. Non è possibile amare Dio che non si vede se non si ama il fratello che si vede (1Gv 4,20). D’altra parte l’amore del prossimo senza l’amore di Dio rischierebbe di risultare velleitario: mancherebbe di consistenza. Non mi è possibile amare il prossimo, soprattutto se è un mio nemico, senza la grazia di Dio che mi dona di fare ciò che mi risulta impossibile.
2. Ma ora, data la cornice di questa ordinazione diaconale, dobbiamo affrontare una domanda: è possibile amare Dio e il prossimo senza, al contempo, servire Dio e il prossimo? La domanda si impone perché è vero che l’esperienza del diaconato è ancora troppo breve per poterci offrire le linee di una identità precisa del carisma diaconale. Ma è pur vero che il diacono ha un legame sacramentale – quindi non puramente volontario o ideale – con il servizio-ministero o diakonìa.
Possiamo allora rispondere alla domanda di sopra: no, non è possibile amare senza servire: ne andrebbe della serietà dell’amore. Né, d’altro canto, è possibile servire senza amare: ne andrebbe della gratuità del servizio. Del resto Gesù insegna. Quando scocca la sua ora di passare da questo mondo al Padre, si mette a lavare i piedi ai suoi discepoli, e stila – per così dire – il suo testamento: “Lavatevi i piedi gli uni gli altri”. Un “esempio” – la lavanda dei piedi ai discepoli – che illustra e anticipa il comandamento nuovo: “Amatevi gli uni gli altri”. Un parallelismo perfetto. Anche qui l’amore a Dio e il servizio al prossimo sono strettamente annodati. Perché un amore a Dio che non si concretizzasse nel servizio al prossimo rischierebbe una verticalità esile. Viceversa un servizio al prossimo che non si radicasse nell’amore a Dio rischierebbe una orizzontalità fragile. E’ stato detto: “Se non è tenuto sveglio da una comunione dolorosa con tutti i sofferenti e i maledetti della vita terrena, il cristiano rischia di dormire su quello stesso amore che ha ricevuto” (J. Maritain).
3. Cari Andrea, Luca, Gabriele, Marco, Roberto, Luca, Massimo, ora so bene di rischiare grosso: di scivolare sulla buccia di una retorica bolsa e stucchevole. Perciò provo a modulare sottovoce una sorta di inno alla gioia del servizio.
Che gioia servire senza puntare al successo, sapendo che a noi non è richiesto l’onere della raccolta, ma è concesso l’onore della semina.
Che gioia servire senza lasciarsi mai stancare dall’ingratitudine, né spegnere dall’indifferenza, né mai paralizzare dall’angoscia dei risultati.
Che gioia servire chi è nel bisogno spendendosi senza compiaciute smanie di protagonismo e senza patetiche manie di vittimismo.
Che gioia servire dando gratuitamente quanto si è e quanto si ha, senza quantificare i meriti da esibire come carta di credito per l’aumento di stipendio.
Che gioia servire donandosi a fondo perduto, e scoprirsi sorpresi e confusi per il pieno di perfetta letizia che ci si ritrova tra le mani.
Che gioia servire constatando che è infinitamente più bello sentirsi immeritatamente amati che venire profumatamente stipendiati.
Che gioia servire vedendo un volto che si illumina, incontrando un sorriso che fiorisce, scorgendo un cuore che si spalanca al grande sole dell’amore.
Che gioia servire gettando il proprio affanno nel Signore, sicuri di poter ricevere da lui, a suo tempo, una misura smisurata di felicità.
Che gioia servire il Signore, nella sicura speranza che un giorno ci farà sedere a mensa e passerà a servirci, lui, venuto per servire, non per farsi servire.
Che gioia servire il Signore nei fratelli, specie i più poveri, nella fondata fiducia che quel giorno lui ci dirà: “Venite, benedetti dal Padre mio. Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
Rimini, Basilica Cattedrale, 29 ottobre 2017
+ Francesco Lambiasi