La fede: un salto nella luce

La verginità consacrata trasparenza dell’amore divino
Omelia tenuta dal Vescovo nel corso della consacrazione di Marina Venturi nell’Ordo Virginum

Da malato a guarito, da guarito a chiamato: è il percorso seguito da Bartimeo, il cieco che all’inizio del vangelo abbiamo incontrato seduto lungo la Gerico-Gerusalemme a mendicare, e al termine vediamo allontanarsi in dissolvenza, al seguito del Figlio di Davide, in cammino verso la croce. Il tratto dai bordi della strada al punto in cui si trova Gesù in transito è appena di pochi passi, ma il salto è enorme: il figlio di Timeo passa dall’essere non vedente al credere ciecamente, dal ritrovarsi un povero emarginato al diventare un seguace innamorato del suo guaritore e salvatore, Gesù di Nazaret. In una parola, Bartimeo passa dall’oscurità più totale alla luce più avvolgente e penetrante. Ma chi l’ha detto che la fede è un salto nel buio?

 

1. Ricostruiamo il cammino di fede di Bartimeo. Gesù è appena partito da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, ma quanti di coloro che gli vanno dietro riescono a ‘vedere’ il suo vero volto e a intravedere in quel volto il profilo del Messia destinato alla croce? Quanti, a cominciare dai Dodici, hanno veramente afferrato il perché di questa enigmatica ‘spedizione’ alla volta della città santa? Quanti invece credono ciecamente che si stia andando verso una schiacciante vittoria dell’Unto del Signore sui suoi implacabili avversari? Del resto come acconsentire anche alla sola ipotesi di un Messia fallito e sconfitto?

Ma a Bartimeo la cecità ha affinato l’orecchio: non appena sente lo scalpiccio della gente e intuisce i passi del rabbi Nazareno, comincia all’istante a ‘vedere’ la verità di Gesù: è il Figlio di Davide, il Messia, l’atteso, l’unico che potrà finalmente avere pietà di un poveraccio come lui. Nel suo grido implorante, nella straziante invocazione di pietà che giunge dai bordi della strada, comincia a profilarsi in chiara luce il volto misericordioso di Gesù e il miserabile volto del povero. Tra parentesi, non siamo forse tutti dei disgraziati, prima di incontrare il Figlio di Colui che “innalza gli umili e rimanda i ricchi a mani vuote”? Per la prima volta rabbi Jeshù non censura il riconoscimento della propria identità messianica, anzi è l’unico che capta, tra le impietose strilla della folla, il grido supplicante del cieco. E all’udito finissimo di Bartimeo la risposta imperativa di Gesù – “Chiamatelo!” – si traduce direttamente in voce attraente, e suona come appello che invita a docile, fedele sequela.

Appena ricevuto il messaggio, il cieco getta via il mantello, il segno biblico della forza dell’uomo, l’unico riparo per la notte, la sua misera tana ambulante, ma qui forse ‘quel’ mantello rappresenta anche il simbolo di mortificanti pregiudizi discriminatori. Con uno scatto fulmineo, il figlio di Timeo balza in piedi, proprio come un morto che risorge, e corre a tentoni verso quella misteriosa sorgente di attrazione, che gli restituirà molto più della luce per distinguere perimetri e contorni di oggetti e soggetti di questo mondo. Insieme alla luce per gli occhi, il Figlio di Davide gli dona il lume interiore per discernere la verità più luminosa e più ardente. Questa: che il Dio d’Israele vuole bene anche a lui. Ecco ciò che il cieco comincia di nuovo a vedere: la propria umana dignità, specchiata nel gesto di misericordia da parte di quell’Uno che la riconosce e la promuove. A un Dio così si può credere ciecamente. E ciecamente si può andare dietro a un Messia così.

2. Adesso possiamo salutare Bartimeo, incamminato, come un autentico discepolo, sui passi di Gesù diretto a Gerusalemme, per tornare indietro nel vangelo, ed entrare con l’evangelista Luca in una sinagoga – poniamo, di Cafarnao – dove il Nazareno ha appena operato un altro miracolo. Si tratta di una povera donna ricurva, che da diciotto anni non riusciva in nessun modo a stare diritta (Lc 13,10-17). E’ un miracolo, al quale mi è venuto da pensare per associazione di idee, meditando sul vangelo di oggi. Ecco come lo rilegge con fine sguardo introspettivo uno scrittore contemporaneo (F. Parazzoli). Dopo aver osservato come da troppo tempo, prima di Gesù, lo spirito dell’umiliazione e della sopraffazione avesse imposto alla donna di restare curva sotto il fardello di odiose leggi maschiliste e di ataviche, intollerabili superstizioni, questo scrittore mette in bocca alla povera donna parole di fuoco, rivolte contro scribi e farisei: “Nei vostri calendari non vi è neppure un giorno buono per la liberazione della donna. Egli, invece, appena mi vide entrare nella vostra sinagoga, riconobbe in me i guasti che lo spirito delle vostre leggi ha operato sul mio sesso fino a renderlo schiavo delle vostre presunte sapienze. Anche il rispetto verso Dio avevate usato per tenerci piegate. Ma egli vide tutto questo nella mia persona e benché fosse di sabato, e benché fosse in una sinagoga, volle risanarmi. Anzi, a voi che alzate la voce, a voi che protestate, io voglio dire: solo perché era di sabato e solo perché si era nella sinagoga, egli mi volle guarire”. Però non solo ‘guarire’ – dobbiamo aggiungere – ma ‘liberare’. Infatti alla poveretta, nell’imporle le mani, Gesù ha detto una parola, mai udita prima sotto il cielo: “Donna, sei libera”.

 

3. Adesso salutiamo anche la donna liberata da Gesù, e dalla sinagoga di Cafarnao ritorniamo alla nostra Cattedrale, per venire a te, Sorella carissima. Ci domandiamo: in che senso e in che modo Gesù ha liberato la donna? L’ha liberata dalla schiavitù del marito, dei figli, del lavoro. Come ha abolito ogni discriminazione sociale, tra padroni e schiavi; come ha cancellato ogni discriminazione razziale, tra giudei e greci; così Gesù ha azzerato ogni discriminazione sessuale, tra maschi e femmine (cfr Gal 3,28). Come ha rialzato dalla polvere della strada il cieco di Gerico, così Gesù ha fatto andare la donna ricurva a schiena dritta e a testa alta. Ecco la parola liberante che il rabbi Galileo rivolge alla donna: “Alzati!”, rimettiti in piedi, cammina eretta. Vivi un vita verticale, respira il vento della libertà, affrancata da gioghi e dipendenze, emancipata da maschere e paure. Tu puoi guardare Dio negli occhi, e Dio non si stanca di salutarti ogni mattino con il suo buongiorno: “Non temere!”. Ciò che invece ti butta a terra è la paura. In latino, avere paura, pavère, ha la stessa radice di pavimento. La paura è ciò che ti atterra, ti abbatte come si batte la terra per livellare il pavimento. “Fino a che non siamo chiamati ad alzarci / non conosciamo la nostra altezza, / ma se ci alziamo davvero / arriva fino al cielo la nostra statura” (E. Dickinson, poetessa statunitense dell’Ottocento). E uno dei segni più vistosi della emancipazione cristiana della donna è la verginità. Con Gesù si verifica un vero sovvertimento per i suoi contemporanei, per i quali il non sposarsi o il non avere discendenza era ritenuta una sciagura, se non addirittura una maledizione divina. Ormai la donna può scegliere il suo futuro e non è più costretta a vivere in funzione dell’uomo. Gesù è stato il primo e praticamente l’unico ad avere aperto alla donna la strada della verginità per il regno dei cieli. Perché è nell’evento di Gesù che si è compiutamente svelata la natura dell’amore. Rispetto all’AT la rivelazione dell’amore si è come capovolta: i profeti partivano dall’amore umano per comprendere qualcosa dell’amore di Dio; nel NT si parte dall’amore di Dio, che si è reso visibile in Cristo, per comprendere l’amore dell’uomo” (Maggioni). La prima Lettera di Giovanni (4,10) lo dice chiaramente: “Da questo si comprende che cosa sia l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Dio che ha amato noi”. Questa rivelazione è un’autentica rivoluzione. La verginità è il segno che la sessualità, l’essere uomini e donne, racchiude in sé un appello, non un destino; dunque l’essere donna non è una condanna, è una vocazione. La verginità è la prova del nove che tu, sorella, sei amata: testimonianza di un amore ricevuto, che ti rende libera e gioiosa, capace di amare gli altri senza legarli a te stessa.

Ma ora ci poniamo un’ultima domanda: come è che avviene che una donna cristiana scelga la verginità? E’ solo per un innamoramento folle, per una irresistibile, totalizzante attrazione d’amore. Infatti non ci si innamora di una grande idea, né di un altissimo valore, fosse pure la pace o la giustizia, e neanche di una nobile virtù, fosse pure la povertà o la castità o la carità. Ci si innamora solo di una persona. E quella persona può essere solo Gesù, che ti ha amata e ha dato se stesso per te. La verginità è un modalità d’amore che meglio lascia trasparire l’amore di Dio. E questo perché la verginità è un modo di amare tirandosi da parte, togliendosi di mezzo, per lasciare libero campo a Dio e al fratello o alla sorella.

Cercare l’amore di Dio come possibile e come l’unico amore necessario, assoluto ed eterno; non dedicarsi a nessuno in modo esclusivo, ma lasciare che siano i percorsi della vita a proporti quel fratello o quella sorella che ha bisogno di trovare in te una trasparenza della compassione divina; coinvolgere tutta te stessa, anima e corpo, nell’attesa di un altro Sposo, Gesù, del quale tutti gli sposi della terra sono immagine e figura: tutto ciò è possibile e può riempire una vita.

“E’ motivo di gioia e di speranza vedere che oggi torna a fiorire l’antico Ordine delle Vergini, testimoniate nelle comunità cristiane fin dai tempi apostolici. Consacrate dal Vescovo diocesano, esse acquisiscono un particolare vincolo con la Chiesa, al cui servizio si dedicano; pur restando nel mondo, esse costituiscono una speciale immagine escatologica della Sposa celeste e della vita futura, quando finalmente la Chiesa vivrà in pienezza l’amore per Cristo Sposo” (VC 7). Ecco pertanto le tre componenti che strutturano il ‘genoma’ del carisma dell’Ordine delle Vergini: la verginità, poiché la vergine si consacra anima e corpo a Cristo Signore come suo unico sposo; la diocesanità, poiché la vergine si consacra nella e per la Chiesa particolare; la secolarità, dal momento che la vergine vive nel mondo, ma non è del mondo.

Quella di questa sera – che vede la nostra sorella carissima, Marina Venturi, consacrarsi nell’Ordine delle Vergini – è la prima che avviene nella nostra Diocesi. Sorella nostra, ti auguriamo e ci auguriamo che altre sorelle scelgano pubblicamente di seguire lo Sposo divino dovunque egli vada e dovunque egli le vorrà condurre.

Rimini, 28 ottobre 2012

+ Francesco Lambiasi