Qualche mese fa, e precisamente a fine ottobre 2016, durante l’incontro internazionale per i 30 anni dello ‘spirito di Assisi’, il sociologo Zygmunt Bauman, recentemente scomparso aveva affermato: “La storia dell’umanità può essere riassunta in molti modi, uno dei quali è la progressiva espansione del noi”. Prima ancora, due anni fa, papa Francesco incontrando i giovani a Sarajevo, aveva detto: “Voi siete fiori di primavera che vogliono andare avanti e non tornare a quel che ci rende nemici gli uni gli altri. Non siamo ‘loro e io’: siamo ‘noi’. Vogliamo essere un ‘noi’ per non distruggere la patria. Tu sei musulmano, tu sei ebreo, tu sei ortodosso, tu sei cattolico, ma siamo ‘noi’. Mai costruire muri, ma soltanto ponti”.
Stiamo vivendo giorni di nebbia, di paura, di rabbia. Si impone una domanda onesta e coraggiosa: nella nostra Città e sul nostro territorio vogliamo aprire porte o blindare inferriate? Vogliamo costruire vicoli ciechi o creare svincoli di collegamento?
Incombe su di noi tutti la responsabilità di guardare ai tristi episodi di questi tempi inquieti e travagliati, muovendoci non solo “intorno” ad essi, ma cercando di andarci “dentro”. E andarci dentro significa guardarli certamente con le lenti della politica, della giustizia, della sociologia, della psicologia e quant’altro. Ma per andarci dentro fino in fondo dobbiamo assumere una prospettiva ineludibile, ed è quella educativa. Quando si verifica un disastro ambientale, bisogna che tutti ci si interroghi su cosa è avvenuto e su cosa si poteva fare per evitarlo. Anche nella situazione attuale, che stiamo vivendo e soffrendo sulla nostra pelle, noi adulti e tutti coloro che sono impegnati in ambito educativo dobbiamo porci la domanda: cosa avremmo potuto fare e cosa dovremmo fare in futuro per impedire episodi del genere? Insomma che avvenire stiamo fabbricando per i nostri bambini?
Nessuno di noi, penso, si può chiamare fuori e rassegnarsi passivamente di fronte a derive tanto drammatiche. Ma oltre a fare una attenta opera di prevenzione perché questi misfatti non avvengano più, dobbiamo anche renderci conto che ogni nostro gesto, ogni nostra parola, ogni nostra scelta – per quanto intima e privata – ha una ineliminabile ricaduta pubblica, educativa o diseducativa, a seconda che essa sia all’insegna della violenza o, invece, dell’accoglienza di chi è diverso da noi per motivi di razza, di cultura, di religione.
In questi giorni si è parlato anche di paura. Sono convinto che la forza della pace possa piegare e vincere la paura della forza, se si dà ascolto, oltre che alle sacrosante esigenze del diritto, anche alle leggi primordiali del cuore. Solo un cuore convertito e rinnovato può superare la tentazione di dire: “Che mi importa di mio fratello?” (Caino). Solo un cuore pacificato può dire – come d. Lorenzo Milani, morto 50 anni fa: “I care”, “Mi importa, mi prendo a cuore”.
Lasciamoci allora interpellare da una domanda che si affaccia su sentieri di speranza: cristiani o musulmani, europei o immigrati, non siamo forse tutti in un periodo di transumanza verso nuovi orizzonti, colmi di bene, di bello, di genuinamente umano? Diamoci allora tutti una mano, fondiamo in coro le nostre voci per invitare tutti – famiglie, scuole, istituzioni, parrocchie, associazioni sportive, mezzi di comunicazione – a costruire insieme una città veramente civile, accogliente, abitabile, in cui l’unica guerra tollerata sia la guerra contro il menefreghismo, e la pace più ambita sia quella dell’I care, la pace che fa germogliare nella comunità il fiore del Noi.
Rimini, Piazza Cavour, 1 aprile 2017
+ Francesco Lambiasi