Vorrei accostarmi al vostro dolore, carissimi papà Paolo e mamma Rossella, carissime Martina e Kate, e vorrei farlo con tutta la tenerezza che voi meritate e con il garbo di cui sono capace. Chi vi parla, non ha vissuto il dolore lacerante che vi brucia in cuore, ma permettetemi di venire a voi con l’abbraccio di tutti, con la preghiera di molti.
Vi confesso che, per il groviglio dei sentimenti che mi si arruffano in cuore, ho fatto fatica a trovare le parole più giuste per questo momento. Fatemi citare allora quelle del nostro piccolo, grande Don Oreste Benzi. Il giorno che morì, il 2 novembre di quattro anni fa, di fronte alla sua salma appena composta, trovammo scritte sul suo libretto Pane quotidiano, questo pensiero profetico: “Nel momento in cui chiuderò gli occhi a questa terra, la gente che sarà vicino dirà: è morto. In realtà è una bugia. Sono morto per chi mi vede, per chi sta lì, ma in realtà la morte non esiste perché appena chiudo gli occhi a questa vita, li apro all’infinito di Dio”. So di condividere con voi, spero con tutti, questa incrollabile certezza: quando un nostro amico non vive più, vive di più.
Ora, carissime sorelle, fratelli e amici, fate sottoscrivere anche a me le parole di papà Paolo: “Dicono che Dio trapianti in cielo i fiori più belli, per non farli appassire. Credo che sia così”. Passatemi un pennarello per far firmare anche a me lo striscione dei tantissimi amici: “Marco, ora insegna agli angeli ad impennare”. Fatemi rileggere ad alta voce le parole ritrovate ieri sul libro del nostro PuntoGiovane di Riccione, dove all’età di 18 anni, Marco aveva partecipato a una settimana di convivenza con i suoi compagni di liceo. Durante quei giorni aveva scritto: “Sono stato il ‘folletto’ (così si chiama il ragazzo che prega per un altro durante la convivenza) più scandaloso che la storia ricordi. Non ti prometto che pregherò per te in futuro, perché sicuramente me ne dimenticherei. Però lo farò questa sera, prima di andare a letto e cercherò di fare in modo che la mia preghiera valga anche per tutte le volte che non la dirò”. Negli stessi giorni una compagna di classe gli aveva scritto: “Quando ho scoperto che saresti stato tu il mio ‘protetto’ sono stata contenta. Tu, a differenza di molti altri, sei uno che non pretende dagli altri”.
Personalmente ho incontrato Marco una volta sola, qualche mese fa, alla cresima della sorella Martina, ma ora che ho scoperto la sua schiettezza e la sua bontà, mi prende un amaro rimpianto: quello di non aver provato a diventargli amico. Sono sicuro che un amico così libero, trasparente e generoso, non mi avrebbe respinto per il solo fatto di essere io anziano o vescovo, anzi con lui avrei potuto anche discutere e perfino litigare, di quelle belle litigate che si possono fare solo tra amici.
Ma adesso, fratelli miei, permettetemi che mi senta anch’io percuotere il cuore da quella domanda inesorabile: perché Marco si è schiantato domenica scorsa alle 9,55 sull’asfalto dell’autodromo di Sepang? Io non posso cavarmela ora con risposte preconfezionate, reperibili sulla bancarella delle formule pronte per l’uso. Sì, alle volte noi credenti pensiamo di svignarcela con l’allusione enigmatica a una indecifrabile volontà di Dio. Ci ripetiamo, instancabili: “è la volontà di Dio”, e non ci rendiamo conto che, sbandierando parole senza cuore, rischiamo di far bestemmiare il suo santo nome. Il mio animo si ribella all’idea volgare di un Dio che si autodenomina “amante della vita”, che mi si rivela come il Dio che “ha creato l’uomo per l’immortalità” (Sap 2,23″) e poi si apposta dietro la curva per sorprendermi con un colpo gobbo o una vile rappresaglia. Permettetemi di ridire sottovoce a me e a voi qual è questa benedetta volontà di Dio, con le parole pronunciate un giorno da suo Figlio sotto i cieli alti e puri della Palestina, mentre a Rimini si stava ultimando il ponte di Tiberio: “Questa è la volontà di colui che mi ha mandato. Che io non perda nulla di quanto mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno” (Gv 6,39).
Datemi un po’ del vostro coraggio e aiutatemi ad abbinare, a quello di Marco, il nome dolcissimo del Maestro mio e di ogni cristiano. Voi lo conoscete: il suo nome non è di quelli che condannano a morte; lui si chiama Gesù, che significa “Dio-Salva”. Dove stava allora Gesù in quell’istante fatale in cui il corpo di Marco ha cessato di vivere? Stava lì, pronto per impedire che Marco cadesse nel baratro del niente e per dargli un passaggio alla volta del cielo. Sì, Gesù è il nome del Figlio di Dio che ha preferito me, te, ognuno di noi viventi, tra la sterminata folla degli esseri ibernati nell’abisso del nulla. Gesù è il nome del Figlio di Dio, mandato dal Padre come inviato speciale sulla terra, non a fare prediche sul dolore e sulla morte, ma a condividere la nostra fragilità, fino a morirne. E’ il nome del Figlio di Dio che si è lasciato inchiodare su una croce per stringerci tutti nel suo immenso, tenerissimo abbraccio, e ci ha offerto il segno più grande dell’amore: dare la vita per i fratelli. Gesù non è venuto a spiegarci il dolore né a salvarci dal dolore, ma ci ha salvati nel dolore e lo ha fatto con il suo sangue innocente. Gesù è il nome del Figlio di Dio che ci ha amati con l’amore più incredibile e ha definitivamente sconfitto la morte con la sua risurrezione. Perciò è sempre là, all’imbocco del tunnel della morte, pronto per afferrarci e portarci a godere la gioia senza più se e senza più ma.
Gesù, che registra sul suo diario perfino un bicchiere d’acqua fresca dato con amore, domenica scorsa stava là a dire a Marco: “Grazie, per tutte le volte che mi hai abbracciato nei fratellini disabili della Piccola Famiglia di Montetauro. Grazie, Marco, per tutte le volte che mi hai fatto divertire tanto, quando hai partecipato alla gara delle karatelle nella festa patronale della tua parrocchia. Grazie, perché tutte le volte che hai fatto queste cose ai miei fratelli più piccoli, le hai fatte a me.
Ora, permettimi, caro Marco, di rivolgermi direttamente a te. La sera prima della gara hai detto che desideravi vincere il gran premio per salire sul gradino più alto del podio, perché lì ti avrebbero visto meglio tutti. A noi ora addolora non riuscire a vederti, ma ci dà pace e tanta gioia la speranza di saperci inquadrati da te, dal podio più alto che ci sia. Lasciaci allora dire un’ultima semplicissima parola: Addio, Marco. E’ una parola scomposta dal dolore, ricomposta dalla speranza: a-Dio!
Coriano, 27 ottobre 2011
+ Francesco Lambiasi