Una morte pasquale. Così è stata la morte di don Fernando Della Pasqua. Così la ricorderemo a lungo: come un viaggio verso l’alba della Pasqua senza fine, “che solo amore e luce ha per confine”. Si compie così l’esistenza terrena del Don, nella cornice di questo tempo pasquale, in cui siamo stati – e purtroppo continuiamo ad essere – flagellati dalla pandemia più brutale e implacabile che mai si sia registrata nella storia. E’ una morte pasquale, la sua, non solo perché la Pasqua ne è il quadro e la cornice, ma soprattutto perché della Pasqua essa ci riporta la luce gioiosa e l’acuto profumo, mentre ce ne riconsegna il messaggio luminoso e l’anima segreta.
Ora non è certo il caso di indulgere a giochi di parole, ma viene da chiedersi: poteva essere diversamente se, mentre gli antichi dicevano che è il nome di una persona a s-velare il suo destino (“nomen omen”), qui invece è piuttosto il cognome – “Della Pasqua” – a ri-velare in un lampo (“cognomen omen”) il senso della vita e della missione di un prete della stoffa di don Fernando.
Pertanto il segreto della Pasqua di don Fernando è lo stesso della sua vita: vivere è amare. E amare è donare. E si può racchiudere nella tenera immagine del seme, dolcemente pennellata dallo stesso Gesù, come da messaggio appena proclamato nel santo vangelo. Abbiamo ascoltato:
“Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24).
Per un mondo che cerca miracoli ed eventi strabilianti, per una cultura golosa di sofisticati messaggi elaborati con raffinata sapienza – stile ‘radical chic’ – non può che suonare folle una salvezza che si chiama croce. Non può che risultare scandalosa una liberazione dai dolori che si chiama dolore. Appare inconcepibile che l’unica risposta vera sia l’ora nona della morte di Gesù crocifisso, un’ora che squarcia in due il velo del tempo e spacca per sempre la storia, aprendo a noi un varco transitabile verso l’eternità. Ci risulta in-credibile che la sola strada sicura sia questo chicco di grano destinato a disfare se stesso per rifare questa nostra povera vita, offerta alla morte perché nessuno più debba morire. Sembra ‘roba da matti’ quel patibolo innalzato sul mondo da una umanità perduta, e proprio da questo salvata.
E’ appunto questo inimmaginabile amore a rendere luminosa la croce, a rivelarne la verità di salvezza, a dirci che non è la croce, in quanto sofferenza, a essere redentiva, ma redentivo è l’amore crocifisso e risorto.
“Chi ama la propria vita, la perde”. Ecco il testamento spirituale di don Fernando. E’ la logica del chicco di grano. Una vita, la sua, vissuta sul filo di una umiltà disarmante, di una disarmata mitezza, di una generosità a fondo perduto, di una gratuità eccedente – si direbbe eccessiva – senza rendite e senza interessi. E’ stata tutta uno ‘spreco’ di amore. Ma proprio per questo è stata tutt’altro che una ‘vita sprecata’.
Non diciamo che don Fernando ci mancherà. Certo, ci mancherà la possibilità di abbracciarlo, di assisterlo, di ascoltarlo, di seguirlo. Ma adesso ci starà più vicino di prima. E più di prima ci aiuterà con quel profumo di risurrezione che, tante volte, forse senza neanche accorgersene, ha continuato a spandere fino alla fine.
Non diciamo allora al Signore perché ce l’ha tolto. Ringraziamolo perché ce lo ha donato.
Roncofreddo, 13 maggio 2020
+ Francesco Lambiasi