Non servire il potere, ma il potere di servire
Omelia del Vescovo per la Solennità di Cristo Re (anno C)
Chi è il re? l’uomo dell’oro, dello scettro, del trono? L’uomo dell’avere, del potere, dell’apparire? Uno che ha forzieri colmi, con un numero scioccante di servi, di guardie del corpo e di soldati? Quello che può imporre tutto a tutti e può disporre di tutto e di tutti? Un tale che appare sempre il primo: il più ricco, il più potente, il più importante?
1. L’ambiguo cartiglio posto sulla croce ribalta ogni idea, rovescia ogni opinione, capovolge ogni giudizio sul regno e sul re. In ebraico, in greco e in latino recita: “Il re dei giudei (è) costui”. E’ il motivo della condanna di Gesù il Galileo e vorrebbe significare, nella mente dei capi, la fine della sua assurda pretesa. Invece è l’affermazione inconsapevole che proprio lì, sulla croce, nel luogo del dolore più cocente e della più umiliante sconfitta, nel momento degli insulti e degli abbandoni, s’illumina tutta la storia di questo Re e risplende la sua gloria, la gloria del più grande amore. Nel suo non avere più niente, attrae tutto e tutti a sé. Nel suo essere del tutto impotente, può fare di tutti noi quello che nessun re può fare dei suoi sudditi: un popolo di re. Nel suo apparire fallito e sconfitto, trionfa sull’ultimo nemico, la morte, di fronte alla quale anche il re più potente deve arrendersi, rassegnato o insofferente, ma comunque impotente e disarmato.
Sulla croce la regalità di Cristo riceve l’ultima smentita e insieme la più solenne affermazione. Nel deserto Gesù aveva dovuto subire per tre volte l’assalto di Satana, il quale, dopo averlo tentato invano di seguire la strada di un messianismo di auto-salvezza, “si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato” (4,13). Ora, sul Calvario, scade il tempo fissato. Per ben tre volte viene rivolta al re-crocifisso la sfida condita di scherni e di insulti: “Salva te stesso!”. Gli viene rivolta dai capi del popolo, detentori del potere religioso, i quali letteralmente “storcono il naso” (23,35) di fronte alla sua folle pretesa: un crocifisso per loro è religiosamente un maledetto. Stessa accusa gli viene rivolta dai soldati, rappresentanti del potere politico, i quali testualmente lo “canzonano” (23,36), ma Gesù è politicamente un impotente. Infine gli viene rivolta da uno dei due banditi crocifissi, rappresentanti dell’opinione pubblica: Luca scrive testualmente che “lo bestemmiava” (23,39).
A questo punto la scena si rovescia: i capi, i soldati, un malfattore hanno chiesto a Gesù una dimostrazione di forza. Se Gesù accetta e scende dalla croce, si dimostrerà un “forte”, un vero “re” davanti agli uomini. Invece un pover’uomo gli chiede una dimostrazione di bontà: “Ricordati di me!”. Il primo malfattore ragiona così: credeva di essere migliore di noi, finisce peggio di noi, dunque è uno come noi. L’altro invece pensa: sembra uno come noi, ma è migliore di noi, dunque può salvare anche noi.
“Gesù, ricordati di me”: è la prima volta nel terzo vangelo che Gesù viene chiamato per nome, senza ulteriore specificazione: il terrorista ha scoperto l’amico! “Ricordati di me”, prega la paura. “Oggi sarai con me”, risponde la misericordia.
2. Ma qui dobbiamo riprendere la litania delle domande a raffica. Ma Dio è o non è il Padrone dell’universo, il re dei re, il Signore dei signori? E, allora, come mai il suo inviato speciale, il Figlio di Dio, sarebbe venuto al mondo per autocandidarsi al nostro servizio?! Sì, Gesù non è venuto per farsi lavare i piedi da noi, ma per abbassarsi a terra – con tanto di brocca, catino e asciugamano – a lavare, lui, i piedi a noi.
Quella della croce è la strada contromano, decisamente imboccata da Gesù. E’ la logica più illogica, umanamente parlando. Cristo non è venuto per tenerci ai suoi piedi, ma per mettersi lui ai piedi nostri. Non è venuto per accomodarsi a tavola e farsi servire, ma per far accomodare noi e darci da mangiare. Addirittura per darsi da mangiare a noi. Questo Gesù di Nazaret è proprio un gran sovversivo! Capovolge la rappresentazione tradizionale di Dio, che circolava al suo tempo, nell’immaginario collettivo. Addirittura rovescia la figura di Dio, presentata dal vecchio catechismo. Ricordiamo – almeno noi più anziani – che alla domanda: perché ci ha creati Dio? si doveva rispondere: “Dio ci ha creati per conoscerlo, per amarlo e servirlo in questa vita, e poi goderlo nell’altra in Paradiso”.
No, dice Gesù. O, meglio, sì: la risposta è giusta, ma viene dopo. Prima viene la verità ‘prima’, in assoluto: “Dio ci ha amati per primo” (1Gv 4,19), e ci ha creati per conoscerci, per amarci e servirci in questa vita. E poi per farci sedere a mensa nell’altra vita, quando passerà lui a servirci. Per Gesù “servire” non è verbo a scadenza: è verbo eterno. Cristo, Servo dei servi di Dio, “è lo stesso ieri e oggi e per sempre!” (Eb 13,8). Questa è la bella notizia del vangelo: notizia vertiginosa, messaggio mozzafiato. Noi, servi, perché serviti prima da lui, il Signore in persona.
Eppure avevamo immaginato Dio come un sovrano, come il primo di tutti i sovrani, il più maestoso e irraggiungibile. L’abbiamo sognato come un imperatore imponente. L’abbiamo disegnato come un faraone, magari il più grande, il più potente, il più importante. Ma con Gesù di Nazaret questa operazione di “ingrandimento” non è più possibile, perché lui effettua l’operazione esattamente uguale e contraria: si rimpicciolisce e ci obbliga a fare i conti con la diversità di Dio. Un Dio capovolto! Non più l’uomo che serve e muore per Dio, ma un Dio che serve e muore per l’uomo. Un Dio così, Gesù non solo lo ha proclamato, ma lo ha incarnato. Lo ha “detto” e lo ha “fatto”, da… Messia capovolto! Scrive san Paolo: “Da ricco che era, si è fatto povero per noi, per farci diventare ricchi con la sua povertà” (cf 2Cor 8,9). E ancora: Cristo Gesù, “pur essendo nella condizione di Dio (…) svuotò se stesso assumendo una condizione di servo” (Fil 2,6s).
3. Ecco perché Gesù è il Re dei re: perché fa di noi un popolo di re. Ecco cosa ci dà Gesù: non di servire il potere, ma il potere di servire.
Servire è la parola che tutti vi comprende, care sorelle e cari fratelli che state per ricevere i vari ministeri che tra poco vi verranno conferiti. Pertanto, ora, più che parlarne in modo particolareggiato, vorrei tracciare qualche breve linea di spiritualità del servizio.
È la spiritualità della corresponsabilità, del sentire la responsabilità verso la propria comunità. Una comunità da far crescere, da rendere più bella e credibile, mettendo a disposizione carismi e talenti, senza mai lasciarsi deviare da smanie di protagonismo né inibire da delusioni e frustrazioni, né farsi bloccare da amare incorrispondenze e scottanti incomprensioni.
È la spiritualità del sacrificio, di chi si espone al logorio della routine, di chi si sottopone all’ingratitudine, di chi non si lascia frenare dal senso di inutilità per gli scarsi risultati, né paralizzare dal gelo dell’indifferenza altrui.
È la spiritualità della gratuità, di chi è consapevole che a noi non è chiesto il risultato, ma l’impegno e la tensione a fare le cose al meglio. A noi è richiesto di seminare e coltivare, ma non sempre è dato di raccogliere i frutti, tutti e subito.
È la spiritualità della tenerezza, perché una carezza non la si dimentica mai. Il servizio svolto con garbo e mitezza, senza pretendere subito dei riscontri, è quello che resta come ‘tatuato’ nella memoria del cuore.
È la spiritualità del vangelo della carità, che permette all’acqua viva dell’amore di dissetare anche il deserto spesso arido e torrido della quotidianità.
È la spiritualità della gioia, che viene dal constatare – con umile, grato stupore – la crescita altrui, grazie al proprio tenace, gratuito sudore.
Chi coltiva la gioia dentro di sé, la può riversare sugli altri, come un’anfora stracolma d’acqua che trabocca generosamente e spontaneamente.
Chi dà con gioia, assicura al proprio lavoro la migliore garanzia di portare molto frutto a suo tempo.
Chi dà con gioia, sviluppa all’ennesima potenza la propria gioia.
Rimini, Basilica Cattedrale – Conferimento dei ministero istituiti – 24 nov. 2019
+ Francesco Lambiasi