Omelia tenuta in Cattedrale nella Messa del giorno di Natale 2008
Sono passate poche ore dalla Messa di mezzanotte e il piccolo Bambino, avvolto in fasce e adagiato in una mangiatoia, sembra già cresciuto a dismisura fino a raggiungere, al nostro sguardo attonito e sbalordito, la smisurata statura del Verbo incarnato. Sia chiaro: la liturgia del giorno di Natale non fa “crescere” l’identità del Bambino Gesù, rispetto a quella della notte santa, perché già questa notte abbiamo professato la fede in Cristo, come “Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero”. La differenza tra le due celebrazioni sta piuttosto nel fatto che mentre il vangelo di Luca, utilizzando il linguaggio narrativo, ci ha raccontato il che della verità di Natale (che cosa è avvenuto quando Maria ha partorito il suo bambino), il vangelo di Giovanni, attraverso il linguaggio contemplativo ci aiuta ad approfondire l’identità (il chi) del soggetto protagonista dell’evento (chi è quel Bambino che è nato). Perciò il piccolo bimbo di Betlemme in poche ore non è “diventato” il Verbo di Dio, perché lo è dall’eternità e, umanamente, lo è fin dal suo concepimento. Insomma il prologo di Giovanni ci proclama che è il Verbo che si è fatto piccolo bambino, non il contrario.
Questa verità è fissata nell’espressione incisiva e decisiva dell’evangelista Giovanni: “il Verbo si fece carne”. Commenta papa Benedetto:
“Quel che Giovanni chiama in greco ho logos – tradotto in latino Verbum e in italiano “il Verbo” – significa anche ‘il Senso’. Quindi potremmo intendere l’espressione di Giovanni così: il ‘Senso eterno’ del mondo si è fatto tangibile ai nostri sensi e alla nostra intelligenza: ora possiamo toccarlo e contemplarlo (cfr 1Gv 1,1). Il ‘Senso’ che si è fatto carne non è semplicemente un’idea generale insita nel mondo; è una ‘Parola’ rivolta a noi. Il logos ci conosce, ci chiama, ci guida. Non è una legge universale, in seno alla quale noi svolgiamo poi qualche ruolo, ma è una Persona che si interessa di ogni singola persona: è il Figlio del dio vivo, che si è fatto uomo a Betlemme” (Ud. Gen. 17 dic. 2008).
“E il Verbo si fece carne”: in queste scarse, scarne parole dell’evangelista è riassunta la più bella notizia della storia e la sintesi più alta e profonda della festa del Natale. Vi troviamo affermati i tre tratti imprescindibili dell’identità di Gesù di Nazaret: l’umanità, la divinità, l’essere una sola persona umana e divina. Questa è la figura “tridimensionale” di nostro Signore Gesù Cristo, che ora vogliamo brevemente esplorare:
1. Cominciamo da quella che potremmo chiamare la “base” della figura di Gesù, la sua vera e piena umanità. Bisogna prendere sul serio il realismo dell’incarnazione: facendosi uomo, Gesù è stato “messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato” (Ebr. 4,15). Questo Bambino che giace nella mangiatoia, conoscerà compassione per i malati e misericordia per i traviati, sentirà rabbia di fronte all’impermeabile ostinazione dei farisei, proverà tenerezza per i bambini, sperimenterà angoscia e terrore di fronte alla morte.
Non prendere sul serio queste pagine evangeliche significa ridurre Gesù ad un super-man o ad un attore divino che gioca a recitare la parte dell’uomo senza assumere realmente, sensibilmente, corporalmente tutta la drammatica fragilità della carne umana. Al posto di un Dio vivente fatto uomo, ci ritroveremmo fatalmente tra le mani un’idea evanescente di Dio fatta dall’uomo.
Considerata in questa luce, l’espressione “tranne il peccato” detta della comune umanità tra Gesù e noi, non comporta una sottrazione di umanità alla sua persona, quasi che egli fosse in tutto vero uomo come noi, tranne quella cosa che sembra così “umana”, qual è il peccato. Perché il peccato non è cosa umana, ma infraumana e spesso disumana. Scrive a proposito s. Leone Magno:
“Non bisogna pensare che (Cristo), per il fatto che volle condividere le nostre debolezze, partecipasse anche alle nostre colpe. Egli assunse la condizione di schiavo, ma senza la contaminazione del peccato; arricchì l’uomo, ma non sminuì Dio” (PL 54, 757ss).
Nella sua umanità Cristo è Logos-senso per noi: è lui la sorgente da cui siamo stati originati è lui il modello sul quale siamo stati “programmati”; è lui il fine al quale siamo stati destinati. Cristo è l’uomo nuovo: è la sua umanità a misurare la nostra, non la nostra umanità a misurare la sua.
“Non è stato lui che accettando di nascere e di manifestarsi in Giudea, siè presentato all’esame della storia; egli è l’esaminatore e la sua vita è l’esame a cui è sottomessa non soltanto la sua generazione, ma tutto il genere umano” (Kierkegaard)”.
2. Proviamo ora ad esplorare la seconda dimensione della persona di Gesù, la divinità, che è, in un certo senso, come l’altezza della sua figura.
Dire che Gesù di Nazaret è realmente e integralmente uomo non può portare a ridurre Cristo a solo uomo, per quanto straordinario. Chi nega che egli sia anche vero Dio e contemporaneamente lo ammira e lo esalta come il più umano degli uomini, il maestro più buono e più grande nel donarsi, il profeta dei profeti della fratellanza universale, cade nell’abbaglio più pernicioso che la storia abbia mai conosciuto: perché Gesù ha preteso di essere il Figlio di Dio in persona, e dunque o sono vere le sue parole, o hanno fatto bene i soldati del pretorio a deriderlo come pazzo, e le autorità ebraiche e romane a farlo fuori.
L’evangelista Giovanni, nella sua prima lettera, scrive testualmente: “Chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il figlio di Dio?” (1Gv 5,5). Vincere il mondo non significa solo vincere l’ostilità, l’incredulità, l’odio e la persecuzione del mondo. La Chiesa, con la fede di Pietro e degli apostoli, può e vuole vincere il mondo non per assoggettarlo ma per servirlo; non per condannarlo ma per convertirlo e salvarlo. Tutto l’edificio della Chiesa sta o cade con la roccia della fede di Pietro, che a Cesarea di Filippo ha proclamato: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). La domanda si fa allora drammatica: se dovesse crollare la Chiesa, come potrebbe stare in piedi il mondo?
3. La terza dimensione della figura di Cristo è l’essenziale unità delle due dimensioni precedenti, l’umana e la divina. Coordinando queste due grandezze, la fede della Chiesa non ritiene che l’una debba escludere l’altra: Gesù non ha avuto bisogno di essere meno uomo per essere vero Dio, né di essere meno Dio per essere vero uomo. Se non fosse insieme “veramente e perfettamente uomo, veramente e perfettamente Dio”, noi cristiani saremmo i più sciocchi tra gli uomini, perché giocheremmo la nostra vita su una carta sbagliata in partenza: quella dello sdoppiamento tra uno che, essendo Dio, possiede la soluzione del nostro dramma ma non potrebbe comunicarcela in quanto non sarebbe al nostro livello; e uno che, sì, sarebbe al nostro livello, ma non potrebbe salvarci essendo soltanto in tutto e per tutto un uomo come noi.
Dunque la formula per avvicinarci al mistero della Parola fatta carne non è umanità più divinità, ma divinità nell’umanità. Contemplando l’eccedenza e la totale gratuità dell’amore di Cristo quale già traspare nella mangiatoia e quale si rivelerà in pienezza nel gesto supremo della croce (“Nessuno ha un amore più grande di questo”), la fede ci porta a concludere: umano così può essere solo Dio!
Per questo Gesù non potrà mai essere affiancato a Buddha, a Confucio o a Maometto: solo in Cristo tutto è stato fatto; solo Cristo è la luce del mondo; solo Cristo è la vita degli uomini. Solo Gesù Cristo è il Salvatore del mondo. Infatti “non vi è altro nome sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12).
Ma da qui discende un’altra conseguenza: se il cristianesimo non è primariamente una dottrina, ma una persona, Gesù Cristo, ne consegue che l’incontro con lui è l’avvenimento più importante nella vita, è l’evento più decisivo della storia.
“Sappiamo che la vita e la salvezza dalla disperazione, la garanzia per l’intero universo si racchiudono nelle parole: Il Verbo si è fatto carne” (Dostoevskij).
L’incontro con Cristo è l’inizio di ogni evangelizzazione; è la prima molla di ogni autentica conversione. Non possiamo perciò ridurre Cristo ad un argomento, né possiamo avere con lui una relazione approssimativa e superficiale. Avere un rapporto impersonale con la persona di Cristo è la contraddizione più lampante, ma purtroppo è situazione tutt’altro che rara e infrequente. Se si riduce Cristo ad una idea, il cristianesimo scade ineluttabilmente a ideologia.
Per questo, come vostro vescovo, ho chiesto a tutta la Diocesi di rimettersi in mobilità e di ripartire da Cristo. Ma dobbiamo ripartire dal Cristo intero, quello della fede della Chiesa, non quello di una fede “fai-da-te”.
Oggi, giorno di Natale, arrivati alle parole del credo: “e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria”, ci inginocchieremo. Con questo umilissimo gesto diremo una fede che oggi vogliamo più forte e convinta. Che lo sia da oggi in poi, ogni giorno di più.